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Sperimentazione umana e animale: il quadro legislativo italiano

Lo scoop della stampa tedesca ha provocato indignazioni bipartisan:  le grandi case automobilistiche hanno testato, ad Albuquerque in New Mexico, il livello di nocività del gasolio  su cavie umane e animali.
Sarebbe stato possibile farlo in Italia?
La legislazione italiana, con la solita ambiguità alla Azzeccagarbugli, in tema di sperimentazione umana pone il divieto di fare la cavia a pagamento, permettendo al contempo di sottoporsi a terapie e a farmaci sperimentali su base volontaria.
Più interessante il quadro giuridico in relazione a cavie animali; quanto è legittimo farli soffrire?
A questo quesito cerca di dare risposta il cubo di Bateson, un modello etico che bilancia da un lato i benefici umani e dall’altro il malessere animale, attraverso tre principi cardini proporzionati tra loro:

  • la qualità della ricerca;
  • la sofferenza inflitta agli animali impiegati in quella particolare ricerca;
  • la ricaduta applicativa di quella ricerca.

Partendo da  questa base fondamentale fu sviluppata la Direttiva 86/609/Cee, recepita in Italia dal Decreto Legislativo 116/1992, in particolare all’interno dell’articolo 4.
In esso, al di là dei vari criteri di massima, come l’utilizzare gli animali con il minor sviluppo neurologico possibile, vi sono vere e proprie norme cogenti, tra cui:

  • l’obbligo di utilizzo di sostanze anestetizzanti prima dell’esperimento;
  • il divieto di utilizzo dello stesso animale più di una volta se esso presenta segni di sofferenza o paura, attraverso una valutazione etologica che tenga conto della specificità dell’animale;
  • l’obbligo di utilizzo di sostanze analgesiche dopo l’esperimento o l’eutanasia, in tutti i quei casi in cui la situazione dell’animale sia irreparabile.

Ma a tutti è concesso di porre in essere esperimenti su animali?
Naturalmente no: sono necessari stringenti qualità soggettive per i soggetti esercenti, come lauree specialistiche in materie mediche e scientifiche.
Inoltre, sono richieste molteplici autorizzazioni necessarie non solo per l’apertura di stabilimenti fornitori e di allevamento, rilasciata dal Comune, ma anche per l’apertura di stabilimenti utilizzatori, rilasciata dal Ministero della Salute, previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità.
Per evitare facili scappatoie, i controlli si estendono pure alle modalità, oltre che ai luoghi: dal vertice del Ministero della Salute alla base dei Comuni, tutti i soggetti possibili entrano in gioco per valutare i protocolli medici e il benessere dagli animali coinvolti.
Dove esiste una legge, esiste anche una sanzione: l’art. 14 del decreto sopraccitato dispone che: «Chiunque violi le disposizioni di cui agli articoli 5 e 6, salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione pecuniaria amministrativa da lire 5 milioni a 30 milioni; in caso di violazione continuata o di recidiva il massimo della sanzione è aumentato fino a 150 milioni.»
Stranamente, nessuno ha ancora provveduto a convertire la somma in euro. Si auspica che tale negligenza non sia sintomatica di uno scarso rispetto dell’intero impianto legislativo, a discapito del benessere animale.
I tempi della medicina di Galeno sono distanti. Si spera.

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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