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È costituzionale il carcere obbligatorio per un giornalista che commette diffamazione?

Corte Costituzionale – sentenza n. 150/2021

È costituzionale prevedere il carcere obbligatorio per un giornalista che commette reato di diffamazione?

È la domanda a cui ha risposto la Corte Costituzionale con sentenza n. 150/2021 esaminando le questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e Bari.

Sotto la lente d’ingrandimento l’art. 13 della legge sulla stampa n. 47/1948, in cui si prevede la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione a mezzo stampa; incluso anche l’art. 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, il quale ingloba le sanzioni previste dall’articolo sopraccitato.

Il pericolo di una tale obbligatorietà può produrre l’effetto di dissuadere il giornalista dal compiere la propria funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri. Tuttavia, bisogna distinguere un caso in particolare: la disinformazione consapevole. Infatti, non entra in contrasto con la Costituzione il giudice che applichi la pena del carcere quando il giornalista si è reso responsabile di «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet e social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi». In questa particolare situazione, infatti, il giornalista non è più il «’cane da guardia’ della democrazia, […] ma crea un pericolo per la democrazia, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali».

Al contrario, l’art. 595, comma 3 c.p. non rientra nella disanima, in quanto prevede multa e reclusione come sanzioni alternative tra loro. Si prevede la seconda solo nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per particolare gravità, dando comunque priorità alla multa e le eventuali sanzioni civili e disciplinari. In questo modo, sempre secondo la Corte, non si producono «effetti di indebita intimazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica e della sua essenziale funzione per la società democratica».

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