Sentenze

Tribunale di Verona, Sez. Lavoro – Sentenza n. 401/2016 del 25.07.2016 (Dott. M. Cucchetto)

Udienza del 25.7.2016 Causa n. XXX 2014
Sono comparsi l’avv. P. T. per la parte ricorrente, e l’avv. B. per la parte resistente.
Il giudice, considerato che la causa appare matura per la decisione, invita le parti alla discussione.
Le parti si riportano al contenuto dei rispettivi scritti difensivi e concludono insistendo nelle istanze, eccezioni e deduzioni in essi contenute.
All’esito il Giudice si ritira in camera di consiglio e decide la causa come da separato dispositivo di sentenza con motivazione contestuale di cui dà lettura in assenza delle parti che si sono allontanate.
Il Giudice
Dr. Marco Cucchetto

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI VERONA
Sezione Lavoro

Il Giudice, dr. Marco Cucchetto, all’udienza del giorno 25.7.16 ha pronunciato, mediante lettura del dispositivo, con motivazione contestuale, la seguente

SENTENZA

nella causa di lavoro n. XXX / 2014 RCL promossa con ricorso depositato il 30.10.14

da

G. S. (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. T. P. e dell’avv. T. S. (), elettivamente domiciliato in presso il difensore avv. T. P.

Contro

ULSS 20 DI VERONA (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. B. A., elettivamente domiciliato in VERONA presso il difensore avv. B. A.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 30.10.14 S. G. impugnava il provvedimento disciplinare prot n. 51200 del 16/07/2014 (chiedendo ne fosse accertata la nullità e/o annullamento, ed in subordine la riduzione), emesso nei suoi confronti dall’azienda ULSS 20 di Verona nella persona del Responsabile dell’Ufficio Procedimento Disciplinare Dr. P. M..
Il provvedimento impugnato sanzionava il ricorrente con la sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione, per mesi due e giorni quindici, ai sensi dell’art. 8, comma 8, lett. a), con riferimento ai comportamenti previsti dall’art. 8 comma 4 lett. a) e f) CCNL 10/05/2010, nonché alla violazione degli art. 3 e 10 DPR 62/2013 (doc.1 ric); erano impugnati anche gli atti consequenziali (tra i quali veniva indicata la delibera del Direttore Generale n. 456 del 13/08/14, con la quale, in applicazione dell’art. 8 c.10 C.C.N.L. 6/05/10, viene trasformata la sospensione del servizio, su richiesta dell’interessato e al fine di non compromettere le attività medico assistenziali e di ricerca in corso, con il mantenimento della presenza in servizio ma con la contemporanea privazione della retribuzione, in una sanzione pecuniaria corrispondente al numero dei giorni di sospensione dell’attività lavorativa, che, per il ricorrente è pari all’importo di €. 23.027,97: doc. 2 ric.).
Il ricorrente impugnava la sanzione sia per motivi formali e di “rito” -ed in particolare per violazione dell’art. 55 bis D. Lgs.165/01 e successive modifiche, e dell’art.7 Codice Disciplinare – sia per motivi di merito relativi alla dedotta insussistenza del fatto addebitato ed alla sproporzione della sanzione adottata.
Si costituiva in giudizio l’ente convenuto e chiedeva l’integrale rigetto delle domande del ricorrente in quanto infondate.
Alla prima udienza 29.7.15 le parti insistevano nelle rispettive pretese ed il giudice, stante la natura eminentemente documentale della controversia, rinviava per la discussione alla udienza del 25.5.16 nella quale il giudice rigettava la richiesta di produzione documentale avanzata dalla resistente avente ad oggetto l’ordinanza applicativa di misura cautelare nei confronti del ricorrente nel procedimento penale pendente sub n.15617/14 RGNR ed 11136/14 RGGIP Trib Verona 12.5.16 e la produzione di stralci di quotidiani che hanno trattato le cronache aventi ad oggetto la vicenda.
Alla udienza 25.7.16 fissata per la decisione le parti invitate alla discussione concludevano come in atti e la causa veniva discussa oralmente e decisa mediante pubblica lettura di dispositivo con motivazione contestuale.
La domanda di parte ricorrente è infondata e deve essere rigettata.
La disciplina attualmente in vigore in materia di procedimento disciplinare con riferimento al rapporto di lavoro in esame deve ritenersi contenuta nell’art. 55 bis del D.Leg.vo n. 165 del 2001 (“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) così come introdotto dall’art. 69 del D.Leg.vo n. 150 del 2009.
Così come il precedente testo del’art.55 D.Lgs 165/01, anche l’art.55 bis nella nuova formulazione come modificata dal D.Lgs.150/09 continua a disciplinare allo stesso modo la competenza degli uffici per i procedimenti disciplinari.
Il ricorrente ha eccepito la nullità del procedimento e consequenzialmente della sanzione per incompetenza dell’ufficio disciplinare procedente ex art. 55 bis comma 4, 5 e 8 D.lgs 165/2001.
Nella prospettazione del ricorrente l’ULSS 20 non aveva alcun potere di agire nei suoi confronti, perché all’epoca dei fatti e della contestazione il dott. S. non era formalmente “dipendente” della ULSS indicata in quanto collocato in aspettativa, senza assegno, ed assunto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed il fatto per cui è iniziato il procedimento sarebbe avvenuto con la sottoscrizione e l’inoltro della missiva 9/12/13 (doc. 17 ric.).
La stessa ULSS 20 aveva provveduto ad inviare la comunicazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio Procedimenti Disciplinari, in data 04/04/2014, perché assumesse le dovute iniziative.
Il ricorrente sosteneva che l’aspettativa senza stipendio faceva venir meno il potere sanzionatorio dell’azienda, poiché l’articolo 55 bis cit. al comma 8, afferma “In caso di trasferimento del dipendente a qualsiasi titolo in altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato, concluso o la sanzione applicata presso quest’ultimo’ quindi il potere disciplinare non era nella disponibilità dell’ULSS 20, ma della Presidenza del Consiglio alle cui dipendenze il dott. S. collaborava fin dal 2008 e, correttamente, il Direttore Generale aveva inviato la comunicazione a quell’ufficio, perché provvedesse.
L’eccezione è priva di pregio, sol che si consideri che la norma richiamata attiene al caso – ben diverso – del dipendente che sia, per l’appunto, “trasferito in altra amministrazione pubblica”, laddove nel caso in scrutinio il dr. S. non risultava affatto “trasferito”.
In proposito, giova rammentare che al ricorrente, dipendente della convenuta già dirigente medico chirurgo specialista in Medicina Interna, era stato affidato l’incarico di Responsabile dell’Unità Operativa Autonoma Ser.T. n. 1 e Sezione Screening HIV dell’ULSS 20 e, nel dicembre del 1999, lo stesso era stato nominato coordinatore del Dipartimento delle Dipendenze e referente per l’area delle tossicodipendenze e alcolismo ai sensi della L.R. n. 56/94 della convenuta, finendo per ricoprire nell’ultimo periodo l’incarico di Direttore del Dipartimento Dipendenze dell’ULSS 20.
Dal 22/07/2008 al 08/04/2014 il ricorrente era stato posto in aspettativa dall’ULSS 20, perché nominato, con un incarico di collaborazione, a Capo del Dipartimento per le politiche antidroga presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Ciò detto è evidente che non può accogliersi il ragionamento del ricorrente, tutto imperniato sulla equiparazione del dipendente “trasferito” alla posizione del ricorrente, il quale, lungi dall’esser stato “trasferito”, era stato chiamato con incarichi di collaborazione professionale a rivestire l’alta funzione di Capo del Dipartimento per le politiche antidroga presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Non si dubita che anche in detto lasso temporale lo stesso non avesse perso – ai fini di individuazione dell’organo competente all’adozione delle sanzioni disciplinari nei suoi riguardi – la qualità di “dipendente” della ULSS indicata benché si trovasse in posizione di soggetto collocato in aspettativa senza assegno, ma certamente non “trasferito” nei sensi innanzi precisati.
Era stata poi in ricorso eccepita l’illegittima costituzione (o addirittura l’inesistenza) dell’ufficio competente e della nomina del responsabile del procedimento, per mancanza di indipendenza dell’organo giudicante, palesatasi nella fase istruttoria e nel corso dell’audizione del dr. S. e dei suoi difensori.
Si doleva, in particolare, il ricorrente che fossero state disattese dall’azienda le norme previste dalla legge ai fini della costituzione dell’ufficio disciplinare, che pur essendo interno all’ente deve avere una propria autonomia decisionale per poter giudicare.
L’azienda – con l’atto n. 484 del 12/11/08 (doc. 30) che deliberava la costituzione dell’ufficio dei procedimenti disciplinari – aveva disposto “di assumere tutti i provvedimenti attuativi dell’atto aziendale” e con successiva delibera 17/12/08 aveva nominato il dr. M. quale R.U.P.D. con decorrenza 1.1.09, stabilendo che il “supporto amministrativo” gli sarebbe stato assicurato dall’U.O.C. Ufficio Legale all’interno del quale lo stesso era incardinato come previsto nell’Atto Aziendale (doc. 32 a ric.).
Era accaduto che durante l’audizione del dott. S. fosse stato nominato segretario verbalizzante l’avv. A., Capo dell’Ufficio Legale dell’azienda convenuta, e che quest’ultimo fosse intervenuto suggerendo anche al “giudicante” dr. M. riguardo alle contestazioni di cui si discuteva: nell’ottica del ricorrente un siffatto intervento dell’avv. A., sia nella conduzione dell’attività istruttoria che nella decisione finale, aveva fatto venir meno l’indipendenza dell’Ufficio Disciplinare, come si doveva evincere dal fatto che la decisione facesse riferimento a fatti e circostanze che non sono e non erano agli atti del procedimento, rendendo radicalmente nullo il procedimento.
Ma si osserva sul punto che, quand’anche fosse vero che l’avv. A. fosse intervenuto durante l’audizione con “domande ed affermazioni” – ma non meglio specificate nel contenuto o nel tenore, come ha genericamente richiesto di provare per testi il ricorrente – non si vede in che modo ciò abbia potuto determinare la radicale nullità del procedimento.
Lo stesso Atto Aziendale di costituzione dell’ U.P.D. aveva previsto che il “supporto amministrativo” sarebbe stato assicurato al dr. M. dall’U.O.C. Ufficio Legale, il che giustifica e legittima la presenza dal punto di vista formale in qualità di segretario/verbalizzante dell’avv. A. nel corso dell’audizione del dr. S..
Sotto diverso profilo deve riconoscersi che, anche dal punto di vista sostanziale, la presenza del legale nella dedotta veste di supporto (veste che giustifica la possibilità di indicare e suggerire chiarimenti al dr. M., unico soggetto abilitato poi concretamente a decidere se ed in che misura accogliere i suggeriti chiarimenti) non poteva ex se determinare un’effettiva lesione dell’indipendenza dell’U.P.D. e men che meno poteva minarne l’imparzialità.
La “ratio” dell’art. 55 bis cit. è da individuare sia nell’esigenza di rendere più veloce l’esercizio del potere disciplinare sia – solo per i procedimenti relativi a fatti puniti con sanzioni più severe – nell’esigenza di assicurare al dipendente maggiori garanzie, quali sono indubbiamente assicurate dall’UPD.
L’Ufficio per i procedimenti disciplinari, infatti, pur non rivestendo la “terzietà” propria delle commissioni di disciplina di cui al T.U n. 3 del 1957, offre al lavoratore pubblico sufficienti garanzie di imparzialità, in ragione della “specializzazione” di tale organo e, soprattutto, della sua indifferenza rispetto al capo della struttura del dipendente incolpato, coinvolto direttamente nella vicenda disciplinare (v. Cass. 2168/2004, relativa a fattispecie regolata dall’art. 55 nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 150/2009).
L’art. 55-bis comma IV° dispone che l’U.P.D., che deve essere costituito da ciascuna amministrazione – secondo il proprio ordinamento a prescindere e comunque anteriormente rispetto ad uno specifico procedimento disciplinare – deve svolgere in via esclusiva tutte le fasi del procedimento disciplinare.
Ma con riguardo all’ipotetica partecipazione alle fasi del procedimento disciplinare da parte di soggetti od organi esterni all’UPD, va accolta la chiara indicazione che proviene da una recentissima pronuncia della Suprema Corte in materia:
“Nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, tutte le fasi del procedimento disciplinare devono essere svolte dall’ufficio per i procedimenti disciplinari, competente anche abrogazione delle sanzioni, salvo quelle comprese fra il rimprovero scritto e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino a dieci giorni, ma l’interferenza di organi esterni determina l’illegittimità del procedimento, e la nullità della relativa sanzione, solo qualora si sia tradotta in una compartecipazione sostitutiva e non meramente additivi’ (Sez. L, Sentenza n. 11632 del 07/06/2016 – Rv. 640005).
In motivazione la Suprema Corte chiarisce che la struttura dell’art. 55 bis, che distingue le regole sulla competenza e quelle sul procedimento, sorrette da “ratio” e finalità diverse, comporta che le violazioni delle regole procedurali che non si risolvano anche nella violazione delle norme sulla “competenza” – per essere stato in concreto l’intero procedimento disciplinare, in tutte le fasi, gestito in autonomia dalli organo competente e per essere stati tutti gli atti previsti adottati da quest’ultimo – non determinano per ciò solo nullità del procedimento e della sanzione adottata.
Il che vale a dire che l’eventuale deviazione dallo schema procedurale può rilevare – ai fini della violazione delle regole in punto di individuazione dell’organo competente ad iniziare e concludere il procedimento disciplinare relativo alle sanzioni più gravi – ma non nei casi in cui l’interferenza possa ritenersi sostanzialmente neutra rispetto alla gestione del procedimento ed alla adozione degli atti adottati al suo interno.
In chiaro: non ogni interferenza di organi esterni all’ U.P.D. è, allora, giuridicamente rilevante, tale essendo solo quella che abbia determinato decisiva – nel senso di sostitutiva e non meramente additiva -compartecipazione del soggetto estraneo all’adozione del provvedimento, con conseguente inammissibile sostanziale trasferimento della competenza dall’organo competente ad un diverso organo, sicuramente non competente.
Il che non risulta essere avvenuto nel caso in esame non essendovi stato alcun intervento “sostitutivo” dell’avv. A. rispetto alla adozione del provvedimento ma, seppure, qualche intervento meramente “additivo” rispetto alla fase specifica del procedimento relativa all’audizione del dr. S..
Non ne risulta quindi compromessa l’indipendenza ed imparzialità del competente UPD.
Ci si occupa ora della violazione dell’art. 55 co. 3 per tardività della contestazione, della dedotta violazione del comma 2-3 e 7 dell’art. 55 bis D.Lgs. 165/2001 per la rilevata genericità dell’addebito, della violazione per insufficienza e genericità della formulazione del capo d’incolpazione (in violazione dell’art. 7 del codice disciplinare), nonché della lamentata contraddittorietà ed insufficiente motivazione della decisione.
Quanto alla doverosa verifica della immediatezza della contestazione disciplinare si rileva che la stessa è un concetto da misurarsi non in senso assoluto bensì in senso relativo alla luce delle circostanze del caso concreto e del peculiare atteggiarsi degli addebiti in esame.
Si osserva, in via generale, che il principio dell’immediatezza è compatibile con quell’intervallo temporale che risulti necessario per il preciso accertamento della condotta del lavoratore e per le più ponderate ed adeguate valutazioni e conseguenti determinazioni da parte del datore di lavoro (Cass.7889/96 e Cass.5093/95); occorre pertanto tenere conto delle ragioni oggettive che possono far ritardare il momento della percezione o del definitivo accertamento dei fatti contestati (Cass. n. 7178/95).
Altre volte si è precisato che il principio dell’immediatezza debba essere applicato con elasticità dal giudice di merito, il quale deve tenere presente anche la complessità delle indagini necessarie per accertare l’illecito del dipendente; si è specificamente ribadito che il principio della immediatezza della contestazione debba essere applicato con elasticità dal giudice del merito che deve tenere conto della specifica realtà fattuale in relazione alla quale si è concretizzato l’illecito disciplinare, della complessità delle indagini necessarie per accertare detto illecito nonchè del tempo occorrente per valutare adeguatamente, seppure con opportuna celerità, la gravità della condotta del lavoratore (Cass. 9.8.2001 n. 10997).
La necessità che la contestazione preventiva dell’addebito sia fatta in tempi relativamente ristretti risponde ad una duplice esigenza: da un lato, quella di consentire al lavoratore incolpato una “possibilità di utile difesa”, altrimenti pregiudicata ed ostacolata dall’eccessivo intervallo di tempo intercorrente tra il fatto ed il momento della contestazione; dall’altro, quella di verificare la genuinità ed attendibilità della volontà sanzionatoria del datore di lavoro, al fine di evitare usi distorti del potere disciplinare.
Se (anche) in ciò risiede la “ratio” del principio dell’immediatezza, anche quale “parametro di valutazione” della serietà e congruenza della sanzione irrogata, la tempestività dell’avvio dell’azione disciplinare deve essere valutata con riferimento al dipanarsi dell’intera vicenda a partire dal momento in cui i fatti sono stati portati a conoscenza del soggetto titolare del potere di iniziativa disciplinare.
Venendo al vaglio del caso in scrutinio si rileva che l’art. 7 del codice Disciplinare, che il ricorrente ritiene violato, dispone al comma quinto:
“Nell’ambito del procedimento disciplinare previsto dall’atto. 55 bis del d.lgs. 165/2001 come introdotto dal d.lgs. 150/2009, la contestazione dell’addebito deve essere specifica e tempestiva, nel rispetto dei termini temporali previsti dalla legge, nonché contenere l’esposizione chiara e puntuale dei fatti in concreto verificatisi, al fine di rendere edotto il dirigente degli elementi a lui addebitati onde consentire allo stesso di esercitare il diritto di difesa”.
Nella specie il principio deN’immediatezza della contestazione deve ritenersi osservato, tenuto conto del fatto che non può accogliersi la prospettazione attorea, che vorrebbe far decorrere il termine di 45 giorni per la contestazione disciplinare (40 gg. per la contestazione e 5 gg. per la trasmissione degli atti all’ufficio competente) dalla ricezione in data
18.3.14 della missiva inoltrata dal legale della C., il quale l’aveva peraltro inoltrata non direttamente bensì solo “per conoscenza” al Direttore Generale dell’ULSS n.20.
Vero è, invece, che il Direttore Generale, velocemente assunte le opportune informazioni in un lasso temporale assai contenuto, a sua volta inoltrava in data 4.4.14 all’Ufficio Procedimenti Disciplinari dell’ ULSS 20 (doc.20) ed all’ufficio legale (doc. nn.20 e 21) la formale trasmissione della lettera del legale di C., della nota del Dipartimento Dipendenze 31.3.14 e della lettera del legale di C. di chiarimenti del 2.4.14.
Ma se è vero, come è vero, che il termine di cui all’art. 55 bis, co. 3, D.lgs. n. 165/2001 non ha carattere perentorio (l’art. 55 bis commi 2 e 4 qualifica testualmente perentori solo i termini d’inizio e di fine del procedimento disciplinare, senza soffermarsi espressamente sulla natura del termine di cinque giorni ipotizzato per la segnalazione del fatto all’UPD da parte del capo struttura) se ne deduce che a tale termine si applicherà il principio generale dell’ordinarietà dei termini ex art. 152 cp.c.
Risulta allora tempestiva la contestazione contenuta nell’atto di incolpazione, ricevuto dal ricorrente presso la di lui abitazione in data 10.5.14, rispetto al momento in cui i fatti sono stati portati formalmente a conoscenza del soggetto titolare del potere di iniziativa disciplinare.
Quando al ricorrente furono contestati gli addebiti, non era quindi trascorso un lasso di tempo tale da far ritenere, anche dal punto di vista sostanziale oltre che formale, venuta meno l’immediatezza della correlazione tra conoscenza del fatto e contestazione.
Quanto alla eccepita genericità ed insufficienza del capo di incolpazione contenente gli addebiti, si rileva che la lettera di contestazione 6.5.14 (doc. 3 res.) conteneva queste specifiche e non altrimenti equivocabili accuse: “avere in data 9 dicembre 2013 inviato, a titolo personale, una lettera alla ditta C., azienda fornitrice di questa ULSS, nella quale:
– in maniera del tutto inopportuna ed inappropriata vengono avanzate ingenti pretese economiche. Il tutto aggravato dalla circostanza che esse risultano supportate da argomentazioni giuridiche francamente discutibili;
– in maniera indebita, oltre che inopportuna ed inappropriata, si dispone di un bene, dichiarato di proprietà dell’Azienda, senza aver ricevuto alcuna autorizzazione a riguardo;
– in maniera indebita, oltre che inopportuna ed inappropriata si pretende di imporre ad un soggetto terzo limitazioni alla propria autonomia negoziale.”
Nulla quaestio in giudizio – e per quanto possa rilevare – sul fatto che la proprietà del software denominato MFP spetti alla ULSS 20, per quanto riconosciuto sia dal ricorrente (che lo afferma, unitamente agli altri sottoscrittori nella lettera “incriminata”) che dal legale di C., oltre che dalla stessa ULSS 20.
Ciò posto, l’addebito come sopra richiamato appare senza dubbio specifico e determinato (oltre che tempestivo, per quanto superiormente osservato).
Le contestazioni si imperniano sull’avvenuto inoltro da parte del ricorrente (e degli altri firmatari), di una lettera a titolo personale (in quanto priva di intestazione o riferimento di sorta), rivolta nei confronti di un’azienda fornitrice della convenuta, nella quale i firmatari:
1. Avanzano ingenti richieste economiche (100.000 euro) alla C. (“a saldo forfettario e risarcitorio di quanto fino ad oggi fatto”);
2. Agiscono senza aver ricevuto dall’Azienda la benché minima autorizzazione (trattandosi di un programma per quanto detto da ritenersi bene aziendale di proprietà dell’azienda convenuta);
3. Tentano di imporre a un soggetto terzo, già fornitore dell’azienda ULSS 20, limitazioni alla propria autonomia negoziale.
Dalla semplice lettura degli specifici addebiti si desume abbastanza linearmente la chiarezza e puntualità della motivata incolpazione, peraltro tutta incentrata sul contenuto della missiva (in merito al quale non vi è contestazione), senza dubbio tale da consentire al ricorrente di approntare ogni ulteriore difesa.
Anche le superiori eccezioni attoree appaiono allora infondate.
Nel merito della condotta oggetto di censura disciplinare il ricorrente tenta di sostenere che unico intento dei firmatari della missiva 9.12.13 fosse quello di ottenere tutela dei propri diritti intellettuali e che nessun lucro intendevano ottenere – né hanno ottenuto – per sé stessi avendo solamente richiesto, una somma “una tantum” a loro spettante da devolvere a favore dell’Azienda stessa ULSS 20, che non ‘difendeva’ l’investimento operato nella “creazione del programma”.
In proposito non servono molte parole per rilevare la manifesta inopportunità del comportamento del ricorrente (e dei suoi “sodali”) i quali in mancanza di una benché minima autorizzazione – invero non allegata nelle stesse giustificazioni offerte, che confermerebbero anzi un’iniziativa realizzata addirittura all’insaputa dei vertici aziendali – hanno autonomamente deciso di rivolgersi “privatamente” (né in calce alla lettera né in intestazione si rinviene una qualche indicazione o spendita dell’agire in nome e per conto della ULSS 20 o della provenienza dell’iniziativa dall’azienda o per l’azienda) alla C. avanzando ingentissime pretese economiche per € 100.000,00 a ristoro o come equa retribuzione di propri diritti intellettuali.
I firmatari spiegano bene nella missiva l’origine della pretesa economica, che riconducono apertis verbis all’esigenza di conseguire una “retribuzione” economica dalla C. per lo sfruttamento dei diritti intellettuali del programma (sottolineatura dell’estensore): “Si chiarisce formalmente che nessuno dei professionisti sottoscritti ha mai rinunciato ai propri diritti intellettuali né firmato alcuna liberatoria o delega alla ditta C. e quindi ora li rivendica anche in equa forma retributiva’.
II tutto è avvenuto senza aver ottenuto alcuna autorizzazione dai vertici aziendali e, addirittura, senza neppure avvisarli.
E poco importa che, nella fattispecie, la condotta del ricorrente non possedesse “fine di lucro”, rilevandosi in proposito che l’addebito si fonda non già su una condotta di asserita locupletazione del ricorrente bensì sull’aver egli sottoscritto ed inviato la ripetuta missiva – del tenore e contenuto già vagliati – su carta non intestata, senza ottenere l’autorizzazione dal datore di lavoro e senza neppure avvisarlo della esorbitante richiesta avanzata – a sua insaputa – con soggetto già fornitore di servizi dell’azienda stessa.
Ve n’è, dunque, abbastanza per reputare del tutto proporzionata ed adeguata al fatto contestato la sanzione adottata, specie considerando la peculiare posizione rivestita dal ricorrente in seno all’azienda convenuta.
Le domande avanzate dal ricorrente vanno allora disattese e rigettate e le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in virtù dei parametri tabellari in vigore e dell’opera professionale prestata secondo le fasi del procedimento concretamente svolte.
P.Q.M.

Il Tribunale di Verona in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa:
1) Rigetta il ricorso;
2) Condanna la parte ricorrente a rifondere le spese di lite sostenute dalla convenuta ULSS 20 di Verona, in persona del legale rappresentante pro tempore, che liquida in complessivi € 6.200,00 oltre rimborso spese 15 % , IVA e CPA di legge.
Verona, 25.7.16
IL GIUDICE
dr. Marco Cucchetto

Rimani sempre aggiornato sui nostri articoli e prodotti
Mostra altro

staff

Redazione interna sito web giuridica.net

Articoli correlati

Lascia un commento

Back to top button