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Installa telecamere in bagno per spiare le dipendenti: titolare condannato

Corte di Cassazione – sentenza n. 17065/2022, sez. Quinta Penale

Un conto è installare delle microspie per spiare le dipendenti in bagno, un altro è saperle usare.
Questa è la conclusione dai risvolti tragicomici confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 17065/2022.

Il caso

Nel 2014, le dipendenti di una pasticceria si accorgevano che il titolare aveva installato in bagno delle microspie; per la precisione, una sul portarotolo e una di fronte alla tazza del water. L’utilizzo è chiaro: spiarne l’intimità.

Preso in causa, il datore di lavoro confessava l’installazione ma ammetteva di non aver mai registrato le immagini.

Il reato

Il titolare veniva condannato a 8 mesi di reclusione in primo grado, pena poi ridotta in appello. Come portato avanti dai legali, infatti, risultava come egli fosse «privo di competenze tecniche sufficienti a progettare un impianto di videosorveglianza»; l’impianto stesso, poi, era «incompleto, insufficiente e di scarsa potenzialità» e «inidoneo alla acquisizione di immagini». Per questo motivo, il reato per cui il titolare veniva condannato era sì quello di Interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis, c.p.) ma solo nella forma tentata. Come spiegato, infatti, «l’assenza di riscontri in ordine all’effettivo procacciamento di immagini escludono la configurabilità del delitto consumato» pur rimanendo l’idoneità a realizzare la condotta tipizzata.

Per questo motivo, la Corte di Cassazione respinge il ricorso del titolare e lo condanna a pagare le spese processuali e 3.000 euro alla Cassa delle Ammende, oltre che rifondere le spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili.

Confermata anche la condanna dei precedenti gradi di giudizio, ma siamo sicuri sia sufficiente per evitare comportamenti simili?

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