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Il principio della reformatio in peius

Cosa si intende con la locuzione latina ‘reformatio in peius’?
L’art. 597 c.p.p., in tema di cognizione del giudice di appello, stabilisce che «quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici».
Ecco quindi sancito il concetto di reformatio in peius e il suo divieto, espressione del più generico principio processuale del favor rei che si applica ogni qualvolta l’appellante sia il solo imputato.
In tutti quei casi in cui l’appellante sia il pubblico ministero è, invece, possibile un inasprimento della pena.
Una prova empirica di questo astratto principio si può cogliere dalla sentenza n. 3827/2018 della Cassazione: nella vicenda, che vede un uomo ricorrere all’ultimo grado di giudizio per fare invalidare il giudizio che lo condannava per tentato omicidio, egli deduce, tra le varie richieste, «la violazione dell’art. 597 del c.p.p sulla misura dell’aumento di pena a titolo di recidiva».
A norma dell’articolo 99 c.p. «si ha recidiva quando un soggetto, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro, essendo quindi sottoposto a un aumento di pena».
La recidiva è quindi una reformatio in peius? Decisamente sì.
Di conseguenza, pur ritenendo infondati tutti gli altri motivi dedotti dal ricorrente, la Cassazione dispone l’annullamento con rinvio nel punto sopraccitato, in quanto «essendo appellante il solo imputato, la Corte d’appello non poteva disporre l’aumento della pena in seguito alla recidiva senza violare il principio della reformatio in peius, la quale riguarda non solo l’entità complessiva della pena ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua violazione».

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