Sentenze

Tribunale di Verona, Sez. Lavoro – Sentenza n. 403/2016 del 28.09.2016 (Dott. G. Piziali)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Verona – Sezione Lavoro, nella persona del Giudice dott. Giorgio Piziali, ha pronunciato la
seguente
SENTENZA

nella causa civile di lavoro promossa con ricorso depositato in data 21.2.2013

DA

D. M., comparso in causa a mezzo dell’avv. M. R. per mandato a margine del ricorso ed elettivamente domiciliato presso lo studio dello stesso in Verona, Via

CONTRO

L. G. SNC DI P. L. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, P. L., R. G. E P. M., comparsi in causa a mezzo dell’avv. A. D. per mandato a margine della memoria di costituzione ed elettivamente domiciliati presso lo studio della stessa in Verona,
OGGETTO: accertamento rapporto lavoro subordinato – differenze retributive
UDIENZA DI DISCUSSIONE: 26.7.2016 CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE:
accertarsi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra la società L. G. snc ed il ricorrente, durato dal 01.07.06 al 28.02.08, o da quelle diverse date che risultino in corso di causa, periodo durante il quale il ricorrente ha prestato attività per medie 60 ore settimanali come bracciante agricolo, oltre ad ulteriori 50 ore settimanali quale custode e guardiano del podere di proprietà della società datrice sito in Colà di Lazise (VR), località Preoni – Grolle, rapporto da regolamentarsi alla stregua del CCNL operai agricoli e da inquadrarsi, per le mansioni concretamente svolte, al 3° livello – ex specializzato; condannarsi la società resistente ed i suoi soci illimitatamente responsabili in via sussidiaria a pagare al ricorrente il trattamento retributivo pari alla somma lorda di € 87.298,94 (di cui € 2.533,28 per TFR), o quella diversa che risulti di giustizia in corso di causa, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria.
Con vittoria di spese e compenso, oltre ad IVA e CPA, da riconoscersi direttamente a favore dello scrivente procuratore che se ne dichiara antistatario.
CONCLUSIONI DI PARTE CONVENUTA:
Si conclude chiedendo la reiezione della domanda con vittoria di spese ed onorari di causa da liquidarsi a sensi dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è stato introdotto dal signor D. M. allo scopo di ottenere una pronuncia che accerti la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra lui e la società L. G. Snc, che avrebbe preso inizio il 01.07.06 e sarebbe durato fino al 28.02.08. Rapporto nel corso del quale il ricorrente non avrebbe ricevuto alcun corrispettivo, così come in esito non avrebbe ricevuto il trattamento di fine rapporto.
Rispetto a quella prospettazione i resistenti hanno contestato il fondamento dell’azione intrapresa, negando che tra le parti sia mai insorto un rapporto di lavoro subordinato.
Prima di venire ad analizzare le contrapposte prospettazioni e le risultanze probatorie, si deve esattamente inquadrare la problematica giuridica, sulla quale si deve innestare l’accertamento degli elementi di fatto.
Al riguardo, dunque, è certamente essenziale fissare il dato giuridico per cui quel che il ricorrente richiede nel presente giudizio è accertare la sua qualità di “prestatore di lavoro subordinato” in favore della società ricorrente, che è una qualità definita dalla legge (art. 2094 c.c., rubricato appunto “prestatore di lavoro subordinato”) come quella di “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Una qualità che, come è noto, trova la propria definizione contenutistica principale, per così dire a contrario, nell’art. 2222 c.c. che nel definire il contratto di lavoro autonomo ne individua la caratteristica nel fatto che la prestazione di lavoro avviene, in questo caso, “senza vincolo di subordinazione”.
Dunque, il carattere decisivo da rinvenire per definire un rapporto come di lavoro subordinato è, per l’appunto, l’esistenza di un vincolo di subordinazione rispetto al soggetto in favore del quale è prestato il lavoro.
Vincolo di subordinazione che, dunque, è onere di chi ne assume la sussistenza, ossia il ricorrente, provare.
Per vero, tuttavia, in via ancora preliminare a questo accertamento si deve altresì dare prova del fatto che un’attività lavorativa sia stata svolta. Ora, rispetto a questi due profili il ricorrente ha assunto nel ricorso di essere stato assunto a far data dal 1.7.2006 e fino al 28.2.2006 affinché curasse per conto della G. s.n.c., titolare di un’azienda agricola, i fondi e gli alberi da frutta di quest’ultima, operasse quale custode della tenuta, curasse la manutenzione dell’abitazione e degli accessori (piscina e campo da tennis); accudisse i cani da caccia, coltivasse l’orto, aiutasse gli operai agricoli utilizzati in occasione della vendemmia e della raccolta delle olive, oltre che, nei periodi estivi, operasse quale domestico (unitamente alla moglie), il tutto con un impegno lavorativo di 7 giorni su 7, con una media oraria di 9,30 ore nel periodo invernale e di 11,30 ore nel periodo estivo.
Questa prospettazione dei fatti, tuttavia, è stata immediatamente e indiscuitibilmente smentita dalla rituale acquisizione nel procedimento del processo verbale di conciliazione sottoscritto dallo stesso ricorrente in data 13.1.2010 dal quale emergeva che il ricorrente aveva lavorato a tempo pieno, quale operaio agricolo, in favore della ditta C. G., dal 5 gennaio 2000 al 31 maggio del 2007 : ossia per 11 dei complessivi 20 mesi in cui il ricorrente aveva assunto di essere stato alle dipendenze dei convenuti.
Un dato che non può essere sminuito o edulcorato, come ha prospettato il ricorrente, limitandosi a rimodulare il periodo nel quale si sarebbe svolta l’attività lavorativa subordinata che si chiede qui di accertare. Per prima cosa perché la prova indubbia che il ricorrente ha prospettato una versione dei fatti falsa, sminuisce complessivamente la sua attendibilità, inoltre, perché i dati introdotti nel giudizio, di cui si dirà, diretti ad attestare che il ricorrente svolgeva una qualche attività di possibile interesse per i resistenti andrebbe altresì provato che si collocano temporalmente in un periodo diverso da quello fino al 31 maggio del 2007, ma, soprattutto, perché l’accertamento che di certo fino a questa data il ricorrente svolgeva una diversa attività lavorativa supporta la ricostruzione alternativa dei fatti e del rapporto intervenuto tra le parti prospettata dai resistenti.
Infatti, l’unico dato certo e indiscusso tra le parti è costituto dalla circostanza che il signor L. P. dal mese di luglio 2006 ha concesso in uso, senza alcuna remunerazione, al signor D. M. un’abitazione situata nei luoghi ove secondo il ricorrente opererebbe la resistente azienda agricola L. G..
Nell’impostazione data dal ricorrente al proprio ricorso la concessione dell’abitazione in uso gratuito sarebbe stata collegata all’insorgere del rapporto di lavoro e avrebbe trovato in esso la sua ragione.
Una prospettazione fortemente suggestiva, che, tuttavia, come si è visto, è stata smentita, con l’effetto di imporre la conclusione che la concessione dell’abitazione in uso gratuito fu determinata da un’altra ragione.
Ragione che il ricorrente non offre, malgrado abbia dovuto ammettere (nella sua prospettazione rimodulata dei fatti) di non aver intrapreso la propria assunta attività lavorativa presso la resistente unitamente alla concessione in uso dell’abitazione, ma, a tutto voler concedere, 10 mesi dopo.
Ragione che, invece, hanno offerto i resistenti, spiegando che l’uso gratuito dell’abitazione venne concesso al ricorrente solo allo scopo di avere qualcuno che abitasse nei luoghi e potesse in tal modo scoraggiare eventuali malintenzionati dall’introdursi nella confinante abitazione utilizzata dagli stessi resistenti solo nei periodi estivi.
Peraltro, oltre a questi profili, si deve in aggiunta dare conto delle risultanze probatorie che dovrebbero provare che il ricorrente ha svolto una qualche attività lavorativa in favore dei resistenti e che detta attività aveva i caratteri del lavoro subordinato.
Per prima cosa si possono considerare i rilievi fotografici allegati dal ricorrente al proprio ricorso e che raffigurano il ricorrente intento a compiere pressoché tutte le attività che egli afferma di aver svolto in favore dei resistenti.
Il dato sintomatico negativo di quei rilievi è, innanzi tutto, che essi appaiono all’evidenza diretti proprio a documentare le attività svolte, esattamente come se fossero stati effettuati appositamente per precostituirsi una prova.
D’altro canto, non si vede per quale ragione qualcuno avrebbe dovuto immortalare il ricorrente mentre svolge questi assunti lavori, senza neppure avvisarlo del fatto che stava effettuando le fotografie, per invitarlo a guardare l’obiettivo e a sorridere, come si fa usualmente. Inoltre, benché si tratti di fotocopie di fotografie si può agevolmente apprezzare che in 6 di esse il ricorrente indossa sempre lo stesso abbigliamento, dal che ben può dedursene che siano state scattate lo stesso giorno e per le rimanenti 3 l’unica differenza nell’abbigliamento sembra essere che sono stati tolti il maglione e il cappellino.
A conferma di una loro realizzazione specifica per dare prova di ciò che si è poi assunto nel ricorso e che, è necessario ripeterlo, per gran parte si è già indubbiamente dimostrato falso.
Questa formazione preordinata ad un utilizzo futuro ovviamente non permette di dare a quei rilievi il valore che il ricorrente gli vuole attribuire.
Ma tutto ciò senza considerare che, in ogni caso, non è neppure indicato (men che meno provato o offerta una prova di) quando quelle fotografie siano state scattate, perché se non fossero state predisposte ad arte per fornire un sostegno al ricorso qui in esame, la loro collocazione in epoca precedente al maggio 2007 le priverebbe di ogni utilità, per quel che si è già visto.
Ma non è tutto.
Due testimoni indicati anche dal ricorrente, E. G. e M. L., non hanno confermato alcuna delle circostanze che il ricorrente intendeva provare, offrendo anzi elementi del tutto contrari, in particolare circa i soggetti che svolgevano molte delle attività che il ricorrente si è, invece, attribuito: in particolare proprio quelle più tipiche, come la raccolta delle olive e la vendemmia o la cura dei vigneti.
Tutte attività svolte da altri e non dal ricorrente.
E significativo è quanto riferito dall’E., che ricorda di come in un’occasione il ricorrente si fosse offerto di aiutarlo nella raccolta delle olive di pertinenza dei resistenti. Offerta certo anomala se egli fosse già stato tenuto, come dipendente dei resistenti, ad effettuare quella raccolta. E offerta che priva di pregio anche l’accertamento che qualche estemporanea attività il ricorrente possa averla svolta nei luoghi in cui viveva, atteso che, il ricordo del teste è che fu il ricorrente, in via del tutto autonoma, ad offrirsi di aiutarlo.
Ma, parimenti, ha escluso ogni fondamento alla prospettazione del ricorrente anche la teste B. L., non solo in merito alle attività agricole “rivendicate” dal ricorrente e già smentite dagli altri testi, ma anche rispetto all’assunto incarico di domestico, che il ricorrente si è parimenti attribuito, unitamente alla moglie, perché proprio la B. era, invece, la collaboratrice domestica della famiglia P., anche nei periodi estivi trascorsi presso i luoghi di cui qui si controverte.
Solo il teste B. S. ha ricordato di aver visto “qualche volta” nei campi o nell’orto il ricorrente; con un’affermazione dalla quale seppure si potesse dedurre lo svolgimento da parte del ricorrente di una qualche attività lavorativa in quei luoghi, certo non sarebbe idonea a dare prova che quelle attività fossero svolte in condizioni di subordinazione rispetto ai resistenti, ma neppure su incarico di questi.
Fermo che il teste B. nel corso della sua deposizione elenca una serie di non ricordo e non colloca nel tempo quanto riferito, se non con un generico “7 o 8 anni fa”, che ben potrebbe collocare i fatti nel periodo 2006 e 2007 nel quale il ricorrente, in realtà, aveva un lavoro a tempo pieno altrove.
Detto questo sul profilo principale del giudizio si deve, da ultimo, per completezza, osservare che è priva di fondamento anche la prospettazione minimale, svolta dal ricorrente in sede di note conclusive, per cui egli avrebbe quanto meno svolto precisi compiti di custodia dell’immobile, con prestazione, quindi, di un’attività che, in forza CCNL applicabile agli operai agricoli, avrebbe natura di attività di lavoro subordinato, da ricondurre nella qualifica di operaio di livello 3.
Infatti, per prima cosa, non integra una prestazione di lavoro quale custode il mero fatto che al ricorrente sia stata data in uso gratuito l’abitazione allo scopo di ottenere che qualcuno vivesse nei luoghi. Il custode, infatti, è tale solo se ha un obbligo di vigilanza sui beni affidati alle sue cure e alla sua sorveglianza.
E dello svolgimento di specifici compiti di custodia e di vigilanza (diversi dal vivere in quel luogo) non vi è traccia neppure nel ricorso. E ciò basta ad escludere la fondatezza di questa domanda.
Ma men che meno vi è traccia nel ricorso del fatto che i resistenti esercitassero un qualche potere di sovraordinazione rispetto al ricorrente in relazione all’assunta attività di custodia.
Fra l’altro, in un rapporto non connotato da subordinazione, nel quale cioè un soggetto non deve sottostare ad un alcun vincolo di orario o ad alcuna direttiva altrui, può benissimo rispondere ad una regolamentazione pattizia del tutto lecita che alla concessione in uso gratuito di un’abitazione corrisponda l’assunzione di obblighi riconducibili tra quelli di custodia.
Infine, non può essere omessa una notazione circa il fatto che il ricorrente, pur assumendo di essere legato da un rapporto di lavoro con i resistenti allorché ha deciso di sua iniziativa di risolverlo l’abbia fatto, per come emerge dal ricorso, semplicemente restituendo le chiavi. Secondo una modalità propria della risoluzione di un contratto di comodato, non già di un rapporto di lavoro, tanto più se l’interruzione del rapporto di lavoro fosse davvero motivata, secondo l’assunto svolto in ricorso, da una colpa dei resistenti, per non averlo mai pagato.
Altro aspetto questo di evidente anomalia, perché secondo il ricorrente egli avrebbe svolto la sua attività lavorativa dal luglio 2006 al febbraio 2008, oppure dal giugno 2007 al febbraio 2008 senza ricevere alcunché e attivandosi per chiedere il pagamento solo il 26.10.2009: un anno e otto mesi dopo la fine del rapporto.
Anche ciò induce a ritenere che non ci fosse in realtà tra il ricorrente e i resistenti alcun contratto di lavoro.
Posta la soccombenza del ricorrente ne deve seguire la sua condanna a rifondere ai resistenti le spese di giudizio da questi sostenute, che si sono liquidate in euro 12756,00, oltre Iva, cpa e spese generali al 15%, tenendo conto dei criteri di cui al dm 55 del 2014, alla luce della natura e del valore del domanda, in relazione alle fasi svolte e alla qualità, complessità e utilità delle attività espletate.
Peraltro, a fronte della soccombenza deve essere accolta anche la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c., da ricondurre nel disposto dell’ultimo comma, atteso che di certo vi è stato un comportamento gravemente infedele da parte del ricorrente per avere introdotto nel giudizio una prospettazione dei fatti indubbiamente falsa con riferimento al fatto che già dal luglio 2006 e fino a maggio 2007 il ricorrente avrebbe svolto un’attività lavorativa in favore dei resistenti per 7 giorni su 7, con una media oraria di 9,30 ore nel periodo invernale e di 11,30 ore nel periodo estivo, mentre in realtà lavora altrove, nonché per aver affermato che l’uso gratuito dell’abitazione, nel luglio 2006, gli venne concesso nell’ambito di quel rapporto lavorativo, mentre è del tutto falso, per quel che si è detto, che quel rapporto lavorativo abbia preso avvio nel 2006.
P.Q.M.

Il Tribunale di Verona in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione rigettata rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere ai resistenti le spese di lite che liquida in complessive euro 12756,00, oltre Iva, cpa e spese generali al 15%. Condanna il ricorrente a versare ai resistenti l’impo rto complessivo di euro 2000,00 ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 96 cpc.
Fissa termine di gg. 60 per il deposito della sentenza.
Verona, 26 luglio 2016
IL GIUDICE
dott. Giorgio Piziali

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