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Molestie sessuali e licenziamento: per la giusta causa non serve l’aggressione fisica

Tribunale di Verona – sentenza n. 317/2021, sez. lavoro

Cosa serve per far licenziare il soggetto molestatore sul luogo di lavoro?
È sufficiente “l’atto finale” in sé o bastano dei comportamenti che ledono la dignità della vittima?

Queste sono le domande alle quali ha risposto il Tribunale di Verona con sentenza di lavoro n. 317/2021.

Il caso

Tutto ha inizio con il ricorso con cui parte ricorrente denuncia l’infondatezza delle contestazioni rivolte da parte della società. Questa prima lo sospendeva e poi lo licenziava per comportamenti molesti e lesivi della sfera privata di una collega.

Tra i comportamenti evidenziati vi sono:

  • ritrovamento da parte della vittima di bigliettini riportanti organi genitali;
  • apprezzamenti volgari durante l’orario di lavoro tra cui «Che bel culo», «Ti aiuto ma tu non mi fai vedere nemmeno le tette» e «Apro il prosciutto ma tu non fai nulla in cambio»;
  • pressione con i genitali passando alle spalle della vittima;
  • messaggi Whatsapp tra cui si riportano: «Stasera ci vediamo e mi offri da bere, che non è una domanda, mi devi solo dire l’ora» e «Ora parto che vado a conquistare la passerina della mia morosa come Hitler con la Polonia».

La vittima aveva riportato i fatti ai colleghi, ma nonostante questi facessero pressioni affinché denunciasse tali comportamenti, è dovuto passare del tempo prima che si convincesse a farlo, complice la vergogna.

La giusta causa

Udita la testimonianza della vittima il giudice ha confermato che le dichiarazioni rilasciate erano coerenti e dettagliate, tanto da non lasciare dubbio sullo stato di disagio provocato dalle condotte sopra elencate. Fatti che hanno trovato riscontro anche nelle testimonianze rilasciate dai colleghi.

Oltre ad aver giudicato inammissibile il ricorso per mancanza della firma digitale necessaria per impugnare il licenziamento, il giudice ha esaminato l’effettiva giusta causa.
Le condotte riportate «risultano inaccettabili nel contesto lavorativo e, prima di tutto, sono contrari alle più elementari norme di convivenza civile, oltre ad essere gravemente lesivi della dignità della collega che il ha subiti»; inoltre «sono contrarie ai principi sanciti dal codice etico aziendale» costituendo «prova adeguata di fatti disciplinarmente rilevanti che integrano una giusta causa di licenziamento».

Il concetto di molestia

Sebbene il ricorrente non sia mai arrivato all’aggressione fisica, ma abbia sempre lasciato il tutto nella mera sfera verbale, le condotte riportate sono chiare molestie. Il giudice, infatti, ricorda che la molestie sessuali come forma di “discriminazione” sono «comportamenti (espressi in forma fisica, verbale o non verbale) indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità della lavoratrice destinataria e di creare nei suoi confronti un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Le molestie sono quindi un comportamento del molestatore, indesiderato dalla persona che lo subisce ed oggettivamente idoneo a ledere la sua dignità. Le molestie prescindono dalla intenzione soggettiva del molestatore, come reso palese dalla previsione testuale che equipara a tutti i fini lo scopo (intenzione soggettiva dell’autore della condotta) all’effetto (risultato oggettivo a carico del destinatario della stessa condotta). Infatti, la condotta indesiderata del molestatore integra le molestie sessuali anche con il raggiungimento del solo effetto di violare la dignità della destinataria e di creare un clima degradante, umiliante o offensivo nei suoi confronti. Non è quindi necessario che le molestie producano altresì l’effetto di far temere alla stessa destinataria che le espressioni verbali o non verbali possano essere seguite da effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale. In altri termini, la legittimità del licenziamento per molestie sessuali presuppone che il lavoratore abbia tenuto nei confronti della collega un comportamento indesiderato di natura sessuale, che ha oggettivamente provocato l’effetto lesivo della sua dignità».

In tal senso, quindi, «non è richiesta anche la dimostrazione della intenzione soggettiva del molestatore di tenere un comportamento indesiderato al fine di ledere la dignità della collega. Ciò in quanto, più in generale, il baricentro della tutela contro le discriminazioni sessuali poggia sul rilievo del contenuto oggettivo della condotta, nonché sulla percezione soggettiva della stessa da parte della vittima (“effetto”), mentre non è necessaria l’intenzione soggettiva di infliggere molestie da parte dell’autore della condotta (“scopo”). Di conseguenza, sono irrilevanti l’assenza di ogni intenzione di offendere la collega, di minacciarla di una aggressione sessuale o addirittura di aggredirla fisicamente, né tantomeno l’indimostrato rapporto di confidenzialità che la stessa M. ha escluso potesse giustificare l’atteggiamento tenuto sul luogo di lavoro».

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