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Assegno di natalità e permesso di soggiorno – Tribunale di Bologna, sentenza n. 185/2018, giudice Emma Cosentino

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA
SEZIONE LAVORO

In data 8.3.2018 ad ore 9.59, davanti al Giudice Emma Cosentino, nella causa di cui in epigrafe, con doppio video contrapposto per consentire alle parti di seguire la verbalizzazione, su consolle, sono comparsi:
– per la ricorrente l’Avv. F;
– per il resistente l’Avv. S. che deposita giurisprudenza.
Le parti discutono oralmente la causa e concludono riportandosi ai rispettivi atti.
Il Giudice si ritira per deliberare differendo l’udienza al pomeriggio per la lettura della sentenza.
Ad ore 15.50, assenti le parti, il Giudice pronuncia sentenza, appresso telematicamente depositata, dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

Il Giudice Emma Cosentino



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA
SEZIONE LAVORO

Il Tribunale, nella persona del Giudice Emma Cosentino, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. 442/2017, promossa da: A. R., rappresentata e difesa dall’Avv. R. F., elettivamente domiciliata presso il Suo studio, in XX n. 60, B..

RICORRENTE

contro

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. R. S., domiciliato presso l’Avvocatura della sede INPS, X n. 6, B..

RESISTENTE

Avente ad oggetto: riconoscimento assegno di natalità.

CONCLUSIONI

Il procuratore della ricorrente conclude come da ricorso introduttivo.

Il procuratore del resistente conclude come da memoria di costituzione e risposta.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

a. con ricorso depositato davanti al Giudice del lavoro di Bologna in data 15.2.2017, la Sig.ra A. R. chiedeva, per i motivi dettagliatamente indicati, che venisse accertato il suo diritto ad ottenere l’assegno di natalità, negato dal resistente.

b. si costituiva ritualmente in giudizio l’INPS che concludeva motivatamente per il rigetto della domanda.

c. alla prima udienza del 4.5.2017, prevista per la comparizione delle parti, la causa veniva rinviata per la discussione all’udienza dell’8.3.2018. d. all’udienza odierna, all’esito della discussione orale, udite le conclusioni delle parti, che si riportavano ai rispettivi atti, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., questo Giudice si ritirava per deliberare e successivamente pronunciava la sentenza, depositata telematicamente, con cui definiva il giudizio dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La domanda della ricorrente è fondata e deve essere accolta.

1a. È pacifico che: – la ricorrente è cittadina extracomunitaria soggiornante in Italia in forza di permesso di soggiorno unico per lavoro subordinato, ovvero priva della carta di soggiorno; – in data 15.1.2016 le è nato un figlio; – in data 11.3.2016 ha chiesto l’attribuzione dell’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125, L. 190/2014, allegando dichiarazione sostitutiva dell’ISEE per un valore inferiore ai 25.000,00 l’anno; – la richiesta è stata respinta in quanto non in possesso di utile titolo di soggiorno.

1b. Diversamente da quanto addotto dal ricorrente, e conformemente a quanto sostenuto dall’INPS, va sottolineato in primo luogo ed in linea generale che non si ravvisa alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 1, comma 125 della L. 190/2014 in quanto non si deve prendere in considerazione ai fini dei requisiti per la concessione del beneficio la situazione personale del neonato, del figlio, ma, come previsto testualmente dalla normativa, e come è del resto logico, quella del richiedente che deve essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione Europea o di uno stato extracomunitario “con permesso di soggiorno di cui all’art. 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione …”ovvero di carta di soggiorno a tempo indeterminato.
L’art. 1, comma 125, L. 190/2014 condiziona espressamente e testualmente il riconoscimento del beneficio in questione al possesso (tra l’altro) del permesso di soggiorno di cui all’art. 9 del testo unico sull’immigrazione.

1c. Diversamente da quanto addotto dal ricorrente, e conformemente a quanto sostenuto dall’INPS, potrebbe non ravvisarsi altresì, almeno in linea generale, alcuna violazione della normativa costituzionale.
L’INPS e parte della giurisprudenza di merito (ivi compreso il Tribunale di Bologna, Dott. M., sent. 975/2017 prodotta dal resistente in contrasto con Tribunale di Bologna dott. S. sent. 706/17) rileva che trattasi di previsione di natura assistenziale non connessa alla tutela della salute o di stati di invalidità per la quale, come indicato dalla stessa Corte Costituzionale, può essere prevista una differente disciplina tra cittadini e stranieri che, peraltro, nel caso concreto, non si fonda su criteri arbitrari o irragionevoli. Il legislatore avrebbe pertanto discrezionalmente ritenuto opportuno che l’assegno di natalità venisse corrisposto esclusivamente a quei soggetti il cui collegamento con il territorio e la comunità nazionale non fossero meramente occasionali, bensì caratterizzati da una certa stabilità. La carta di soggiorno di cui all’art. 9 del D. Lgs. n. 286/98 presuppone, infatti, tra l’altro, che lo straniero richiedente sia regolarmente soggiornante nel territorio dello stato da almeno 5 anni e sia titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi.
La norma de qua non introdurrebbe pertanto limiti discriminatori, ma prevederebbe soltanto un criterio di selezione, non arbitrario od irragionevole, a1 fine di limitare una prestazione assistenziale esclusivamente in favore di quegli stranieri che soggiornano in Italia per un lungo periodo.
Il limite alla suddetta discrezionalità legislativa sarebbe costituito dalla necessità di rispettare i principi di cui all’art. 3 della Costituzione, con la conseguenza che la scelta operata deve fondarsi su criteri di ragionevolezza e non deve determinare una situazione di discriminazione in relazione a situazioni di bisogno o di disagio.

1d. sulla base di tali presupposti l’INPS ha ritenuto di dover respingere la richiesta della ricorrente senza però tener conto sia della situazione concreta sia della normativa comunitaria.
In concreto la situazione è comunque differente da quella che astrattamente consente il rigetto della istanza in quanto, se si bada, come doveroso, allo spirito della normativa, dovrebbe appunto riconoscersi il beneficio in parola a tutti i soggetti il cui collegamento con il territorio e la comunità nazionale non siano meramente occasionali bensì caratterizzati da una certa stabilità, a prescindere dal possesso o meno della carta di soggiorno.
Quindi ove si dovesse verificare che lo straniero richiedente sia regolarmente soggiornante nel territorio dello stato da diverso tempo, con stabilità, non si potrebbe negare il beneficio, alla luce di una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, a meno di ratificare una irragionevolezza ed oggettiva disparità di trattamento rilevante costituzionalmente.

E nel caso in esame risulta che la ricorrente è soggetto il cui collegamento con il territorio e la comunità nazionale non è occasionale, ma caratterizzato da una sicura stabilità. Ella non è appena “sbarcata”in Italia, tantomeno appositamente per avere un figlio e poter beneficiare dell’assegno di natalità, ma vive stabilmente e regolarmente in Italia da tempo, quantomeno dal 2013, epoca del rilascio della carta di identità con residenza a Bologna, ed ha già avuto un precedente figlio nato a Bologna nel 2014. le. Inoltre, ed a prescindere da quanto sopra, diversamente da quanto addotto dal resistente e conformemente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la previsione de qua sembra contrastare con la normativa europea.

La giurisprudenza di merito (non risulta ancora essersi pronunciata la Suprema Corte) sul punto è contrastante.

Parte della giurisprudenza non ravvisa alcuna violazione e/o omessa applicazione dell’art. 12 della direttiva comunitaria 2011/98/CE perché, tra l’altro, il beneficio in parola prescinderebbe dalla sussistenza dello status di lavoratore o di assicurato, non sarebbe annoverabile tra le prestazioni di maternità o paternità richiamate dall’art. 3 della Direttiva. Altra giurisprudenza, che si condivide ed alla quale si ritiene di aderire, ravvisa il contrasto con la suddetta direttiva.

Ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., si rinvia integralmente alla condivisibile motivazione della sentenza n. 706/17 del Tribunale di Bologna resa nel proc. n. 17/2017 in data 30.6.2017 in un caso identico, che appresso si riporta: “Secondo il disposto dell’art. 1 comma 125 l.190\2014 :”Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno, per ogni figlio nato o adottato tra il 1 gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 è riconosciuto un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione. L’assegno, che non concorre alla formazione del reddito complessivo di cui all’articolo 8 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, è corrisposto fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione Europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di cui all’articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui. L’assegno di cui al presente comma è corrisposto, a domanda, dall’INPS, che provvede alle relative attività, nonché a quelle del comma 127, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. Qualora il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE, stabilito ai sensi del citato regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 159 del 2013, non superiore a 7.000 euro annui, l’importo dell’assegno di cui al primo periodo del presente comma è raddoppiato”. L’art. 9 del d. lgs. vo n. 286/1998 prevede che “L. straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno cinque anni, titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari, può richiedere al questore il rilascio della carta di soggiorno per sé, per il coniuge e per i figli minori conviventi.”. La disposizione nazionale richiamata è tuttavia in contrasto con la direttiva europea 2011/98/UE volta a garantire parità di trattamento ai cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa ai quali è consentito lavorare nonché ai cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, con i lavoratori cittadini dello stato membro in cui soggiornano, in diversi settori tra i quali quello della sicurezza sociale definito dal regolamento CE 883/2004 (vedi in questo senso Trib. Como, ord. 197\2016). Tale regolamento contempla per la definizione dei settori della sicurezza sociale sia quelli contributivi e non contributivi compresi al primo comma dell’art. 3 che indica alla lettera b) sia i “trattamenti di maternità e paternità assimilati “come ben evidenziato dalla difesa Inps ma anche alla lettera j) le “prestazioni familiari” (definite dalla lett. z) dell’art. 1 come “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1”). Il bonus bebè di cui all’art. 1 c. 125 l. 190/2014 è un intervento volto a sostenere i redditi delle famiglie, al fine di incentivare la natalità e contribuire alla spese per il suo sostegno (e quindi a “compensare i carichi familiari”secondo la definizione di cui sopra), senza peraltro essere un “assegno speciale di nascita”, essendone prevista la corresponsione fino al compimento del terzo anno di età del figlio (Trib. Bergamo, ord. 14\4\2016 ). Il termine per il recepimento della direttiva è scaduto il 25 dicembre 2013 e non vi è dubbio dunque che la disposizione dell’art. 12, non trasposta nel d.lgs. 40/14, di portata chiara ed incondizionata, debba trovare direttamente applicazione nel nostro ordinamento con conseguente disapplicazione delle norme nazionali eventualmente contrastanti; tale obbligo di applicazione diretta non grava solo sull’autorità giudiziaria, ma anche su tutti gli organi della PA, dunque anche sull’Inps. Sotto il profilo soggettivo, poiché il permesso di soggiorno della ricorrente (prodotto in atti) le consente lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, è certa l’applicabilità dell’articolo 12 della direttiva richiamata.

Sotto il profilo oggettivo la prestazione richiesta, sebbene assistenziale secondo una distinzione propria dell’ordinamento italiano e più difficilmente adattabile a quello comunitario, ricade nel settore della sicurezza sociale oggetto del regolamento comunitario richiamato dalla direttiva, perché è diretta a compensare i carichi familiari, in modo continuativo fino al compimento dei tre anni di età del bambino, ed è corrisposta in modo automatico/non discrezionale laddove sussistano i requisiti di reddito prescritti.

Alla luce delle citate disposizioni, è certamente possibile qualificare la prestazione in esame come rientrante nell’ambito della “sicurezza sociale”ai fini applicativi della Direttiva, in quanto “diretta a tutelare economicamente la maternità e la paternità, in modo continuativo fino al compimento dei tre anni di età del bambino, ed è corrisposta in modo automatico e non discrezionale laddove ricorrano i requisiti di reddito prescritti” (così, in termini condivisibili, Corte d’App. Milano sent. n.1003\2017 che richiama Corte App. Brescia, sent. n. 444/2016). La sentenza meneghina della Corte di Appello ricorda come la CGUE, con sentenza del 24.10.2013 causa C-177/12 abbia affermato che la qualificazione della singola prestazione ai fini in questione deve operarsi avendo riguardo ai relativi “elementi costitutivi”quali “le sue finalità”ed i “presupposti per la sua attribuzione”, e non già al “fatto che essa sia o no qualificata previdenziale da una normativa nazionale”. Nello specifico, secondo tale pronuncia, “una prestazione può essere considerata di natura previdenziale se è attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege, e se si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento n. 1408/71”, il quale contempla le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti le prestazioni familiari. La norma sovranazionale, laddove prevede che i lavoratori di cui al paragrafo 1 lett. b) e c) (quale pacificamente è l’odierna appellante) “beneficiano dello stesso trattamento”riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, appare all’evidenza chiara ed incondizionata, risultando pertanto dotata di efficacia diretta e di portata autoesecutiva. Essa, pertanto, trova ingresso nell’ordinamento nazionale senza necessità di alcuna norma di recepimento e si colloca – per la gerarchia delle fonti normative – al di sopra della legislazione nazionale imponendone la disapplicazione in caso di contrasto.

Non si concorda con la lettura riduttiva della sentenza richiamata del Tribunale Milano secondo la quale: “La prestazione ha carattere e natura assistenziale giacché la sua erogazione prescinde dalla sussistenza di un rapporto assicurativo, potendo così essere ricondotta nell’alveo dell’art. 38 comma 1 Costituzione” (n.2636\2016, confermata nella sent.15913\2017 ) in particolare nella parte in cui ritiene mero auspicio quello contenuto nella direttiva 2011/98/UE richiamata per l’estensione e la parificazione anche delle prestazioni sociali nei confronti dei lavoratori di paesi terzi titolari dei relativi permessi di soggiorno, riconoscendo per altro questa interpretazione un mero avviso del giudice che non si condivide ritenendo al contrario condivisibile l’interpretazione della Corte di Appello con il richiamo alla CGUE. Per altro la CGUE si è espressa recentissimamente sulla materia definitoria della qualificazione di una prestazione di sicurezza sociale con la sentenza del 21\6\2017 nella causa 485\2016. In tale sentenza, che riguardava la normativa italiana relativa al beneficio di cui alla legge n. 448/1998, “i nuclei familiari con tre o più figli di età inferiore ai 18 anni, titolari di redditi inferiori a un determinato limite (EUR 25 384,91 nel 2014) percepiscono l’ANF”, inizialmente riservato ai soli cittadini italiani, esteso in seguito ai cittadini dell’Unione Europea nel 2000, poi ai cittadini di paesi terzi titolari dello status di rifugiato politico o della protezione sussidiaria nel 2007 e, infine, mediante l’articolo 13 della legge del 6 agosto 2013, n. 97, recante Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea – Legge Europea 2013 (GURI n. 194, del 20 agosto 2013), ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e ai familiari dei cittadini dell’Unione. La ricorrente nel caso in esame era titolare di un permesso di lavoro superiore a sei mesi e aveva tutte le condizioni oggettive previste dalla normativa ricordata. La Corte d’appello di Genova adita in appello, nutrendo dubbi in merito alla compatibilità dell’articolo 65 della legge n. 448/1998 con il diritto dell’Unione, poiché tale disposizione non consente al cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico, di ottenere l’ANF, in contrasto con il principio di parità di trattamento enunciato all’articolo 12 della direttiva 2011/98 rimetteva la questione davanti alla CGUE. La prima pregiudiziale consisteva nello stabilire se una prestazione come quella prevista dall’articolo 65 della legge n. 448/1998, denominata [ANF], costituisse una prestazione familiare ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004 e, In caso di riposta positiva, se il principio di parità di trattamento sancito dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE ostasse ad una normativa, come quella italiana, in base alla quale un lavoratore di paese terzo in possesso di “permesso unico per lavoro” (avente durata superiore ai sei mesi) non potesse usufruire del suddetto beneficio [ANF] pur essendo convivente con tre o più figli minori e titolare di redditi inferiori al limite di legge. La CGUE risolve le due questioni, dopo aver ricordato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale (come aveva invece sostenuto la ricordata sentenza del Tribunale di Milano), dichiarando in primo luogo che prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale, e relativamente alla questione se una data prestazione rientri nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, rileva che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, l’espressione “prestazione familiare”indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento. La Corte aveva già dichiarato che l’espressione “compensare i carichi familiari”doveva essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. In merito alla seconda questione, cioè se il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98, possa essere escluso dal beneficio di una siffatta prestazione da una normativa nazionale la CGUE ricorda che, anche se come regola generale dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), di quest’ultima, risulta che devono beneficiare della parità di trattamento prevista dalla prima di tali disposizioni, fra gli altri, i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale, in effetti ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), primo comma, della direttiva 2011/98, gli Stati membri possono limitare i diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della medesima direttiva ai lavoratori di paesi terzi, eccezion fatta per quelli che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Per altro la Repubblica Italiana non ha inteso avvalersi della facoltà di limitare la parità di trattamento facendo ricorso all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, giacché essa non ha manifestato in alcun modo una simile volontà. Conseguentemente la lettura offerta dell’art. 12 dir.2011\98 UE appare in assoluta sintonia con quella adottata in questa sentenza.

Per quanto riguarda l’aspetto reddituale l’attestazione ISEE prodotta dalla ricorrente è idonea a provare il possesso dei requisiti di reddito, fatto peraltro riconosciuto dall’INPS stesso in sede amministrativa che non le aveva contestato in merito la sussistenza dei presupposti di legge per l’erogazione del bonus. Conseguentemente ritiene questo giudice di poter accogliere il ricorso in quanto la disposizione nazionale, ponendo lo straniero lavoratore in una posizione di svantaggio rispetto al cittadino italiano riveste un’illegittima portata discriminatoria, la quale si estende agli atti e comportamenti delle pubbliche amministrazioni che ne fanno attuazione, quale l’INPS nel caso di specie.”. 2. Le spese del giudizio devono essere interamente compensate tra le parti stante il contrasto giurisprudenziale esistente.

P.Q.M.

Il Giudice del Tribunale di Bologna in funzione di Giudice del Lavoro, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando, così provvede: – dichiara l’illegittimità del rifiuto del resistente INPS di corrispondere alla ricorrente Sig. ra A. R. l’assegno di natalità ex art. 1, comma 125, L. 190/2014 – ordina all’INPS di provvedere al pagamento dell’assegno suddetto dalla domanda; – compensa interamente tra le parti le spese del giudizio.

Bologna, l’8.3.2018.

Il Giudice
Emma Cosentino


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