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Dubbi sulla legittimità degli interventi comunali limitativi delle attività di gioco lecito pur se ispirati alla tutela della salute

Spunti per una riflessione critica a margine della sentenza T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, 4 marzo 2020, n. 194

Se l’amministrazione comunale può dirsi tenuta a porre in essere interventi limitativi nella regolamentazione delle attività di gioco lecito, ispirati alla tutela della salute e adottati in ossequio al principio di precauzione e a quello di proporzionalità, al contempo i motivi di interesse generale che consentono le limitazioni di orario di tali attività non possono consistere in un’apodittica e indimostrata enunciazione, ma debbono concretarsi in ragioni specifiche, da esplicitare e documentare in modo puntuale.

Giochi e scommesse leciti

Giochi e scommesse leciti sono un settore particolarmente fiorente e in esso sussistono, oltre agli interessi tipicamente privati degli imprenditori, una pluralità di interessi pubblici-generali (quello economico–finanziario e alla corretta gestione della concessione, quello alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, finalizzato alla prevenzione dei reati, quello alla quiete pubblica e alla tutela della salute e più in generale complessivamente a un ambiente cittadino salubre).

La tutela di tali diversi interessi risulta affidata a diversi poteri pubblici (l’Amministrazione finanziaria per quanto riguarda l’aspetto concessorio; l’Autorità di Pubblica Sicurezza–Questore, per quanto riguarda l’aspetto autorizzatorio; l’Autorità Sindacale per quanto riguarda la salubrità dell’ambiente cittadino) che non confliggono tra loro proprio per le diversità finalità che essi perseguono e cui le rispettive competenze sono orientate (Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2018, n. 1933). A tale composito panorama fa da contraltare la scelta del Legislatore di approcciarsi –regolamentandola – all’attività economica qui in esame parificando tra loro sale giochi e sale scommesse.

La giurisprudenza, da parte sua, registra da un lato pronunce che hanno parificato il trattamento giuridico delle sale giochi a quelle delle sale scommesse (Cons. Stato, sez. V, 16 dicembre 2016, n. 5327; Con. Stato, sez. IV, 16 giugno 2017, n. 2956)e, dall’altro, decisioni che hanno posto in evidenza il differente grado di pericolosità delle due situazioni (Cons. Stato, sez. V, 16 aprile 2014, n. 1861; Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2017, n. 2956), avuto riguardo, soprattutto, agli studi sulla ludopatia.

In tale contesto si assiste quotidianamente all’adozione, da parte degli enti locali (i comuni) di provvedimenti che limitano l’esercizio di tale attività imprenditoriale, sia sotto il profilo della regolamentazione degli orari e dei giorni di possibile apertura, sia sotto il profilo della pianificazione territoriale (con la previsione di regole di distanza da taluni luoghi cd. sensibili).

Una recente sentenza resa dal Tar Brescia n. 194/2000 permette all’interprete di fare il punto sulla materia evidenziando più di un profilo di criticità sotteso ai cennati strumenti limitativi in uso alle pubbliche amministrazioni.

L’intervento del Tar Brescia

Innanzi al Tar Brescia la società ricorrente (che svolge l’attività di raccolta delle giocate mediante gli apparecchi di cui all’art. 110, VI, R.D. n. 773/1931 – TULPS, per conto di un concessionario dello Stato) lamenta l’illegittimità dell’autorizzazione questorile nella parte in cui le imponeva il rispetto degli orari fissati dal Sindaco e, quindi, in tesi, anche del limitato orario che il Comune aveva dettato, con regolamento ad hoc, per il funzionamento degli apparecchi da gioco.

Il Collegio giudicante evidenzia, da subito, la legittima operatività dei due cennati provvedimenti (quello che regolamenta l’orario di apertura dei locali pubblici di competenza del Sindaco quale Ufficiale di Governo per garantire l’ordine pubblico e la sicurezza e quello del Comune di regolamentare l’orario di funzionamento degli apparecchi di gioco presenti nei locali pubblici in un’ottica di prevenzione della ludopatia e, quindi, per garantire una maggiore igiene e sanità sul territorio comunale) che possono coesistere, sovrapponendosi «senza coincidere», per cui la disciplina che regolamenta il funzionamento degli apparecchi da gioco può operare in termini maggiormente restrittivi di quella sull’apertura dei locali (v. anche T.a.r. Lombardia, Milano, sez. I, 2 aprile 2019, n. 716). Se ciò vale in via generale, avuto riguardo al caso sottoposto all’esame del G.A. lombardo, i due provvedimenti coincidono nel senso che, nel Comune di riferimento, da un lato vi è l’obbligo di chiusura delle sale giochi, come individuate in apposita ordinanza, dalle ore 20 alle ore 10 del giorno successivo e nei giorni festivi, e dall’altro lato il gioco, con le modalità individuate dal regolamento ad hoc, è parimenti vietato nello stesso orario, in qualsiasi tipo di esercizio pubblico (e cioè a dire, non solo nelle sale giochi), indipendentemente dall’orario di apertura dello stesso.

Il T.a.r. Brescia avalla la tesi la tesi di parte ricorrente, secondo cui «non rientra nell’ambito della sfera del potere proprio della Questura il contenimento dell’orario di funzionamento degli apparecchi da gioco in un’ottica di tutela della salute pubblica» e, tuttavia, giudica corretto l’operato del Questore che si ritiene non aver violato alcun limite di competenza limitandosi a richiamare il destinatario della sua licenza al rispetto degli orari di apertura dei locali dettati dal Sindaco in veste di Ufficiale di Governo preposto a garantire l’ordine pubblico.

Migliore sorte spetta alle doglianze del ricorrente riferite alla deliberazione del Consiglio comunale, e al regolamento comunale con essa approvato, circa il funzionamento degli apparecchi da gioco incentrate sulla violazione dell’obbligo di un’adeguata motivazione: esse, invero, sono accolte dal Collegio giudicante.

Tanto in ossequio a un orientamento di giurisprudenza (peraltro proprio dello stesso T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, 25 marzo 2019, n. 274; 1 ottobre 2018, n. 930)secondo cui i provvedimenti che intendono contrastare la ludopatia devono basarsi non già su generici richiami alla situazione dell’intera provincia, o su studi e accordi di programma anch’essi generici, ma devono scaturite dall’accertata concreta necessità, a livello locale (cioè comunale), di incidere su di un fenomeno di cui sia già stata accertata la rilevanza nel relativo territorio.

Nella fattispecie al suo giudizio sottolinea il Tar Brescia il «regolamento impugnato è stato approvato con una deliberazione in cui si dà conto solo della volontà del Comune di fare proprio uno schema di regolamento elaborato da una pluralità di enti locali, riuniti in assemblea al fine di individuare misure restrittive volte a contenere la ludopatia, il cui atto di approvazione, a sua volta, non riporta adeguati elementi giustificanti le limitative restrizioni alla libertà di iniziativa economica avversate da parte ricorrente».

Ancora il T.a.r. Brescia dà poi atto dell’insegnamento, di recente espresso, del Consiglio di Stato (sez. III, 1 luglio 2019, n. 4509)secondo cui sussiste, per l’amministrazione comunale, l’obbligo di porre in essere interventi limitativi nella regolamentazione delle attività di gioco, ispirati alla tutela della salute e adottati in ossequio al principio di precauzione e a quello di proporzionalità. Ma è lo stesso Collegio di Palazzo Spada nel parere n. 449/2018 (erroneamente indicato come sentenza da parte del G.A. di Brescia) a mettere in guardia da ogni possibile abuso: «i motivi di interesse generale che consentono le limitazioni di orario in discorso non possono consistere in un’apodittica e indimostrata enunciazione, ma debbono concretarsi in ragioni specifiche, da esplicitare e documentare in modo puntuale. E quindi, nella materia qui in esame, in cui l’azione amministrativa coinvolge interessi diversi, è doverosa un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio di proporzionalità (di derivazione europea e che impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato) rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.

Secondo la giurisprudenza, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile configurandosi, piuttosto, quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa e, in ultima analisi, la rispondenza della stessa alla razionalità e alla legalità.

In definitiva, il principio di proporzionalità va inteso «nella sua accezione etimologica e dunque da riferire al senso di equità e di giustizia, che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto, non solo in sede amministrativa, ma anche in sede giurisdizionale» (Cons. Stato, sez. V, 21 gennaio 2015 n. 284).

Parallelamente, la ragionevolezza costituisce un criterio al cui interno convergono altri principi generali dell’azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento): l’amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisioni arbitrarie o irrazionali.

In virtù di tale principio, l’azione dei pubblici poteri non deve essere censurabile sotto il profilo della logicità e dell’aderenza ai dati di fatto risultanti dal caso concreto: da ciò deriva che l’amministrazione, nell’esercizio del proprio potere, non può applicare meccanicamente le norme, ma deve necessariamente eseguirle in coerenza con i parametri della logicità, proporzionalità e adeguatezza (Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 964; Cons. Stato, sez. IV, 10 aprile 2020, n. 2364).

Sul punto si è chiarito peraltro che il criterio di ragionevolezza impone di far prevalere la sostanza sulla forma qualora si sia in presenza di vizi meramente formali o procedimentali, in relazione a posizioni che abbiano assunto una consistenza tale da ingenerare un legittimo affidamento circa la loro regolarità (Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2014, n. 5609; Cons. Stato, sez. VI, 18 agosto 2009 n. 4958; Cons. Stato, sez. VI, 2 ottobre 2007, n. 5074).

In conclusione, quanto alla vicenda oggetto della decisione del G.A. lombardo, da un lato, l’assenza di riferimenti a dati rilevati e riferibili all’area in cui ricade il Comune, che fossero sintomatici di una situazione di pericolo per la saluta pubblica legittimante l’intervento incidente sulla libertà di iniziativa economica regolarmente autorizzata, dall’altro, il mero e astratto riferimento al fenomeno della ludopatia, hanno portato l’adito Collegio giudicante ad annullare l’impugnata deliberazione del Consiglio comunale e il regolamento comunale con essa approvato.

Normativa comunitaria e nazionale

Pur non essendovi una normativa comunitaria ad hoc sul gioco d’azzardo, il Parlamento Europeo ha approvato il 10 settembre 2013 una risoluzione nella quale si afferma la legittimità degli interventi degli Stati membri a protezione dei giocatori, anche se tali interventi comprimano alcuni principi cardine dell’ordinamento comunitario (tra cui la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi).

Secondo il Parlamento Europeo, invero, il gioco d’azzardo non è un’attività economica ordinaria, dati i suoi possibili effettivi negativi per la salute e a livello sociale, quali il gioco compulsivo (le cui conseguenze e i cui costi sono difficili da stimare), la criminalità organizzata, il riciclaggio di denaro e la manipolazione degli incontri sportivi.

Da parte sua, la Commissione Europea è intervenuta sul tema con la Raccomandazione 14 luglio 2014 (sul gioco d’azzardo on line), stabilendo i principi che gli Stati membri sono invitati a osservare al fine di tutelare i consumatori, con particolare attenzione ai minori e ai soggetti più deboli.

In ambito nazionale assume un rilievo centrale la disciplina ex D.L. 13 settembre 2012, n. 158, (conv. L. 8 novembre 2012, n. 189), c.d. Decreto Balduzzi, che ha attuato un intervento più organico in materia, affrontando diverse tematiche.

Con riguardo ai profili sanitari, è previsto l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA) con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia (art. 5, comma 2).

In attuazione di tale disposizione, è stato approvato il Piano d’azione nazionale. Sin dal 2012 il Legislatore nazionale (con il già citato D.L. n. 158 del 2012), pur senza poi darvi tempestiva compiuta attuazione (come dimostrato dalla attuale persistente mancanza di disposizioni statali in tema di distanziometro), ha previsto l’aggiornamento dei cosiddetti LEA (livelli essenziali delle prestazioni) iscrivendo l’emergente fenomeno delle ludopatie ai livelli essenziali di tutela sanitaria e prefigurando la possibile ricollocazione dei punti gioco per tenere conto dei luoghi cosiddetti sensibili, quale forma di prevenzione del gioco patologico.

L’esigenza è stata ribadita dalla L. n. 208 del 2015 (che, tra l’altro ha abrogato l’art. 5 Decreto Balduzzi) che all’art. 1, comma 936, ha previsto in materia una Intesa Stato-Regioni, raggiunta nel settembre 2017 ma a tutt’oggi non recepita dallo Stato stesso.

Inoltre il comma 943 della medesima L. n. 208 del 2015, battezzato “taglia slot”, è stato seguìto da innumerevoli provvedimenti aventi il similare scopo di ridurre l’accesso a questa tipologia di gioco e il numero di apparecchi disponibili.

Più recentemente la politica nazionale di limitazione della tipologia di gioco lecito qui in discussione è proseguita con il D.L. n. 87 del 2018 che, tra l’altro, ha previsto che, a partire dal 2020 (cioè in un arco di tempo di circa 18 mesi dalla pubblicazione del d.l. medesimo avvenuta in Gazzetta Ufficiale del 13.7.2018) l’accesso ai giochi di cui all’art. 110, co. 6 lett. a) e b), TULPS sarà consentito esclusivamente mediante l’utilizzo della tessera sanitaria, con evidente obbligo dei proprietari degli apparecchi e titolari di concessioni in essere di adeguare la modalità di prestazione delle proprie attività anche a prescindere dalla durata delle concessioni in essere (T.a.r. Piemonte, Torino, sez. II, 21 novembre 2018, n. 1261).

Quanto ai messaggi pubblicitari (di giochi con vincite in denaro) si è adottata la via del contenimento disponendo divieti e proibizioni (v. D.L. 12 luglio 2018, n. 87 – conv. con mod. dall’ art. 1, comma 1, L. 9 agosto 2018, n. 96 – agli artt. 9 ss.).

Avvertimenti sul rischio di dipendenza dalla pratica di giochi con vincite in denaro e sulle relative probabilità di vincita devono essere riportati:

  • su schedine e tagliandi dei giochi;
  • su apparecchi di gioco (c.d. AWP – Amusement with prizes), cioè quegli apparecchi che si attivano con l’introduzione di monete o con strumenti di pagamento elettronico;
  • nelle sale con videoterminali (c.d. VLT – Video lottery terminal);
  • nei punti di vendita di scommesse su eventi sportivi e non;
  • nei siti internet destinati all’offerta di giochi con vincite in denaro.

In base al Decreto Balduzzi è stato istituito anche un Osservatorio per valutare le misure più efficaci per contrastare la diffusione del gioco d’azzardo e il fenomeno della dipendenza grave.

Tale Osservatorio, inizialmente istituito presso l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, è stato successivamente trasferito al Ministero della salute ai sensi della L. n. 190 del 2014 (Legge finanziaria per il 2015), che ne ha modificato anche la composizione, per assicurare la presenza di esperti e di rappresentanti delle regioni, degli enti locali e delle associazioni operanti in materia.

Infine la L. 28 dicembre 2015, n. 208, all’art. 1, c. 936, ha espressamente enunciato di voler «garantire i migliori livelli di sicurezza per la tutela della salute, dell’ordine pubblico e della sicurezza.

Il cennato quadro normativo di riferimento non deve indurre in errore. A una attenta analisi della materia emerge come – sia in ambito nazionale, che in ambito dell’U.E. – in realtà non esista un disfavore nei confronti del gioco d’azzardo in quanto tale, ove esso cioè non sfugga al controllo degli organismi statali e non si esponga alle infiltrazioni criminali» (Cass. civ., sez. VI – 3, Ord., 8 luglio 2015, nn. 14288 e 14287; Cass. civ., sez. I, 27 settembre 2012, n. 16511; T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 7 agosto 2012, n. 7292).

Si è al riguardo sottolineato come le esigenze erariali abbiano fatto premio su sempre più flebili istanze morali così che l’area del gioco autorizzato è venuta progressivamente estendendosi.

La giurisprudenza dell’U.E. ha posto in rilievo che laddove le autorità di uno Stato membro inducano e incoraggino i consumatori a partecipare alle lotterie, ai giochi d’azzardo o alle scommesse affinché il pubblico erario ne benefici sul piano finanziario, le autorità di tale Stato non possono invocare l’ordine pubblico sociale con riguardo alla necessità di ridurre le occasioni di giuoco per giustificare provvedimenti restrittivi (Corte Giust., 6 novembre 2003, n. 243).

La Corte di Giustizia ha ricondotto la raccolta di scommesse nell’ambito di applicazione dell’art. 49 Trattato CE, ponendo in rilievo come le attività che consentono agli utilizzatori di partecipare, dietro corrispettivo, a un gioco d’azzardo costituiscono prestazione di servizi (v. Corte Giust., 21/10/1999, C-67/98, Zerratti; Corte Giust., 24/3/1994, C-275/92, Schindler).

Provvedimenti limitativi degli orari

La giurisprudenza (T.a.r. Lombardia, Milano, sez. I, 11 dicembre 2019, n. 2639; sez. I, 6 dicembre 2019, n. 2608; sez. I, 2 aprile 2019, n. 716; sez. I, 16 novembre 2017, n. 2180.) ha osservato come le numerose fonti normative che limitano il gioco d’azzardo siano state dettate in attuazione dei principi di cui all’art. 41 Cost., essendo, come noto, la libertà di iniziativa economica suscettibile di contemperamento con l’utilità sociale, in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, e alla dignità umana.

Si argomenta nel senso che, ai fini dell’adozione di una disciplina finalizzata a limitare come l’orario di apertura delle sale pubbliche da gioco, così il funzionamento degli apparecchi di cui all’art. 110, comma 6, TULPS ivi installati, è indispensabile che la stessa regolamentazione risulti, oltre che ragionevole e proporzionata in relazione agli obiettivi perseguiti, anche radicata su un’istruttoria quanto più completa e attendibile (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2014, nn. 3271 e 3272).

Il potere in esame è «consentito solo in caso di accertate esigenze di cui deve darsi compiutamente conto» non essendo sufficiente che l’ordinanza sindacale abbia «il proprio fondamento solo su un astratto riferimento al generale fenomeno del gioco d’azzardo e ai suoi effetti, senza tuttavia contenere alcuna specifica considerazione riferita al concreto contesto comunale, risultando conseguentemente preclusa la possibilità di verificare l’adeguatezza e la proporzionalità delle misure adottate, tenuto conto della loro portata anticoncorrenziale e la compressione del diritto di iniziativa economica» (T.a.r. Lazio, Roma, sez. II-bis, 12 maggio 2016, ord, n. 2481).

Da ultimo il Trib. Milano, sez. X, 29 novembre 2019 ha posto l’accento sulla necessità della dimostrazione «che la limitazione dell’orario di funzionamento degli apparecchi da gioco lecito così come disposta con l’Ordinanza Sindacale n. … sia effettivamente idonea a incidere in senso positivo sul fenomeno della ludopatia, limitandolo o riducendone la diffusione» (ord. ex art. 702 ter c.p.c.).

In particolare, al fine di potersi sostenere la legittimità dei provvedimenti limitativi degli orari in cui è possibile accedere ai giochi leciti, nonché degli esercizi presso i quali i medesimi sono collocati:

  • è irrilevante ogni riferimento a studi in materia di dipendenza dal gioco che si riferiscono ad altri contesti territoriali rispetto a quello in cui insiste l’adottato provvedimento non potendo ovviamente evidenziare particolari problematicità del territorio comunale;
  • non sono dunque utilizzabili quegli studi non focalizzati sul territorio del Comune che ha emanato l’ordinanza di regolamentazione degli orari degli esercizi di gioco;
  • l’incidenza della ludopatia sul territorio comunale non può essere desunta dall’aumento degli esercizi commerciali con VLT presenti sul territorio, dovendosi operare una distinzione tra aumento degli esercizi di gioco (di per sé permessa dall’ordinamento) e serio accertamento della sussistenza di un’abnorme presenza del fenomeno della ludopatia sul territorio;
  • rilevano e sono indispensabili precisi studi scientifici (necessari per poter procedere all’emanazione alla disciplina restrittiva degli orari degli esercizi di gioco);
  • «Il sostanziale unilateralismo dell’atto (che considera solo le esigenze di prevenzione della ludopatia) e la mancanza completa di una qualche considerazione degli interessi contrapposti appaiono poi ancora più rilevanti, in un contesto in cui l’importanza percentuale della riduzione oraria imposta agli esercenti (in precedenza, la detta attività era, infatti, permessa senza limitazioni d’orario) e l’esiguo numero di ore rimaste a disposizione (solo 4) portano a ritenere concreto il pericolo che la disciplina limitativa possa risolversi nella pratica interdizione di un’attività che, al contrario, continua a essere permessa dallo Stato; e il tutto in un contesto in cui la giurisprudenza (T.A.R. Veneto, sez. III, ord. 8 settembre 2016, n. 480; sent. 7 dicembre 2016, n. 1346) ha considerato ex se lesive del principio di proporzionalità discipline limitative degli orari di apertura degli esercizi di gioco caratterizzate da limitazioni d’orario in termini percentuali minori di quelle previsti, con riferimento alle V.L.T., dall’ordinanza impugnata» (T.a.r. Toscana, sez. II, 12 giugno 2017, n. 805);
  • devono emergere i dati epidemiologici, statistici e clinici riferiti alla collettività locale essendosi precisato che «in assenza di un’apposita istruttoria che provi, per esempio, l’insufficienza delle misure preventive e terapeutiche poste in essere dalle strutture sanitarie pubbliche rispetto a fenomeni di co-dipendenza psicologica ovvero metta in luce altre fenomenologie di contesto, il provvedimento contingibile e urgente difetta degli elementi di fatto e motivazionali che giustifichino l’intervento “extra ordinem” dell’autorità comunale. Se è vero che la decisione della Corte costituzionale del 2014 (sentenza n. 220 del 2014) ha considerato pienamente legittimo l’utilizzo in questo campo dei poteri di ordinanza ex art. 50, comma 7, del T.u.e.l. per esigenze di tutela della salute, nondimeno i provvedimenti comunali di contrasto della ludopatia (benché ancorati a disposizioni di legge regionale), devono riguardare aspetti specifici della comunità locale amministrata, non già la questione nella sua generica definizione sociale» (T.a.r. Molise, sez. I, 28 aprile 2017, n. 155; v. da ultimo T.a.r. Marche Ancona, sez. I, 30 gennaio 2019, n. 75);
  • alla luce dell’agevole possibilità, per i soggetti affetti da ludopatia, di spostarsi in Comuni limitrofi, dove non siano stabilite limitazioni di orario appare di utilità assai dubbia un approccio, nei confronti del problema della crescente dipendenza delle persone dal gioco, svolto in modo atomistico dal singolo Comune, senza nessuna forma di raccordo della sua azione con gli altri Enti locali, e in particolare con i Comuni confinanti (T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, 16 settembre 2015, n. 616).

Una riflessione ad hoc va poi svolta quanto al ricorso al notorio o alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza che è certamente ammesso rispetto al fenomeno del gioco d’azzardo patologico (GAP), essendo peraltro indubitabile il suo riconoscimento, anche a livello normativo, quale sindrome compulsiva (art. 5 Decreto Balduzzi). Tuttavia, se è certamente notorio che il GAP possa considerarsi una patologia (sociale o sanitaria), non è invece affatto notorio, né tantomeno rientra nella comune esperienza, che lo stesso sia diffuso in ampie fasce della popolazione nell’ambito dell’intero territorio del Comune di riferimento; così come non costituisce fatto notorio (né di comune esperienza) che la disciplina degli orari approntata dal Sindaco di quel Comune rappresenti un rimedio adeguato e proporzionato al suo contenimento.

In altre parole, può dirsi vero, in termini generali, che «nell’attuale momento storico la diffusione del fenomeno della ludopatia in ampie fasce della società civile costituisce un fatto notorio o, comunque, una nozione di fatto di comune esperienza, come attestano le numerose iniziative di contrasto assunte dalle autorità pubbliche a livello europeo, nazionale e regionale» (T.a.r. Veneto, Venezia, sez. III, 28 giugno 2019, n. 793) ma ciò non vale a dimostrare che, nel caso concreto, la popolazione di un determinato Comune sia affetta dal problema della ludopatia.

Intesa Governo, Regioni, enti Locali

L’Amministrazione Comunale che intenda procedere con l’introdurre limitazioni alla durata del funzionamento degli apparecchi di gioco deve tenere presente la Conferenza Unificata Stato Regione n. 103/U del 7 settembre 2017 la quale ha sancito l’Intesa tra Governo, Regioni ed Enti Locali in materia di raccolta del gioco pubblico, avente a oggetto la «Proposta di riordino dell’offerta del gioco lecito».

Tale Intesa è stata adottata dalla Conferenza Unificata ai sensi dell’art. 1, comma 936, L. n. 208 del 2015 il quale stabilisce che in sede di Conferenza Unificata siano definiti le caratteristiche dei punti vendita ove si raccoglie il gioco pubblico, i criteri per la loro distribuzione territoriale al fine di garantire migliori livelli di sicurezza per la tutela della salute, dell’ordine pubblico e della pubblica fede e di prevenire il rischio di accesso ai minori di età.

L’obiettivo che lo Stato si è proposto di raggiungere, in uno con gli Enti Locali – oggetto dell’Intesa – è quello di «regolare la distribuzione dell’offerta di gioco diffusa sul territorio, tenendo conto delle accresciute esigenze sociali», dal momento che «l’insorgere di una nuova emergenza sociale» ha indotto gli Enti locali, in assenza di un quadro regolatorio nazionale aggiornato, a scelte, in generale, restrittive. A tale scopo, la Conferenza ha indicato una serie di misure il cui fine è quello, da un lato, «di realizzare una forte riduzione dell’offerta attraverso una sensibile contrazione dei punti vendita e un innalzamento dei loro standard qualitativi in un’ottica di contrasto al gioco d’azzardo patologico», nonché, dall’altro lato, quello di «definire un sistema di regole relative alla distribuzione territoriale e temporale dei punti gioco», garantendo omogeneità e regolamentazione uniforme sul territorio nazionale anche mediante istituzione di fasce orarie di blocco.

Avuto riguardo alla distribuzione temporale del gioco l’Intesa ha espressamente stabilito di «riconoscere agli Enti locali la facoltà di stabilire per le tipologie di gioco delle fasce orarie fino a 6 ore complessive di chiusura quotidiana di gioco», stabilendo altresì che «la distribuzione oraria delle fasce di interruzione del gioco nell’arco della giornata va definita, d’intesa con l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in una prospettiva il più omogenea possibile nel territorio nazionale e regionale, anche ai fini del futuro monitoraggio telematico del rispetto dei limiti così definiti».

Tale previsione importa quindi una limitazione massima di chiusura quotidiana del gioco, fissata in sei ore complessive al giorno, demandando alle amministrazioni locali la loro concreta declinazione nell’arco della giornata entro tale limite massimo.

Viene, inoltre, stabilito che detta distribuzione delle fasce di interruzione del gioco debba essere definita d’intesa con l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Occorre poi precisare che, in relazione al suo contenuto, l’Intesa pur non essendo volta principalmente a disciplinare gli orari di funzionamento degli apparecchi da gioco (avendo a oggetto il complessivo riordino dell’offerta del gioco lecito), ha comunque trattato tale aspetto esaustivamente in sede di Conferenza Unificata (con condivisione dei suoi approdi) in quanto strettamente inerente alla dichiarata finalità di ridurre l’offerta di gioco anche a fini di tutela della salute, nell’ambito di un più generale confronto sulla regolazione del settore dei giochi avente il più ampio obiettivo della riduzione della relativa offerta.

Orbene, gli effetti discendenti dall’Intesa non possono essere ricostruiti in termini di cogenza, posto che, per espressa previsione dell’art. 1, comma 936, L. n. 208 del 2015 l’Intesa raggiunta deve essere recepita con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, sentite le Commissioni parlamentari competenti.

Tale decreto non è ancora intervenuto, con la conseguenza che l’Intesa, che con tale strumento normativo avrebbe dovuto essere recepita, non ha acquisito efficacia vincolante.

Nondimeno, l’Intesa, in quanto concretizza un accordo tra gli enti istituzionali partecipanti alla Conferenza Unificata, costituisce un atto cui non può essere disconosciuta una certa forza vincolante tra gli stessi, in quanto espressione di principi e regole comuni che, in tale sede, hanno trovato mediazione e composizione attraverso la sintesi delle posizioni e degli interessi di cui sono portatori, dettando linee di indirizzo uniformi per la futura azione di tali enti, anche al fine di creare un quadro regolatorio omogeneo sul territorio nazionale.

Essa costituisce lo strumento che assicura la partecipazione e il coinvolgimento degli enti in materie di loro interesse, attuando un procedimento amministrativo concertato, aperto alla partecipazione dei diversi livelli di governo interessati dalla materia sulla base del principio di leale collaborazione che ispira il rapporto tra gli enti, i cui poteri, in materie che vedono la concorrenza di competenze di più soggetti istituzionali, possono essere esercitati e mediati in sede di Conferenza Unificata, quale sede di esercizio condiviso della funzione, che l’ordinamento riserva a più livelli di Governo, e concertazione delle relative scelte.

La conclusione, in sede di Conferenza Unificata, di intese – cui, dalla richiamata norma legislativa, è affidato specificamente il compito di definire i criteri per la distribuzione e concentrazione del gioco pubblico – costituisce, quindi, la sede normativamente prevista per l’adozione di una disciplina uniforme ponendo un criterio procedurale, di natura concertativa, finalizzato a individuare specifiche misure e modalità in materia di offerta di gioco da valere in modo uniforme sull’intero territorio nazionale al fine di garantire l’omogeneità della disciplina, consentendo ai singoli enti di operare nell’ambito dello schema delle misure concordate e di esercitare le rispettive funzioni negli spazi lasciati liberi dall’intesa.

È quindi da disattendere quell’orientamento giurisprudenziale (T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 18 dicembre 2018, n. 12322; T.a.r. Veneto, Venezia, sez. III, 18 aprile 2018, n. 417) che si limita a ritenere l’Intesa, in quanto non recepita, non cogente, e quindi in alcun modo vincolante, ritenendo, al contrario, più corretto l’orientamento (T.a.r. Lazio, Roma, sez. II bis, 5 febbraio 2019, n. 1460) secondo cui, la mancata adozione del previsto decreto di recepimento non priva l’Intesa di qualsivoglia rilievo, e ciò in ragione del carattere condiviso del relativo contenuto, adottato, come visto, allo scopo di dettare una disciplina uniforme e omogenea sul territorio nazionale.

Pur non rivestendo, quindi, l’Intesa, valore cogente – per non essere stata ancora recepita – la stessa assume la valenza di norma di indirizzo per l’azione degli Enti locali, costituendo al contempo parametro per valutare la legittimità dei provvedimenti dagli stessi adottati in materia.

Sulla scorta di tale premesse in ordine alla valenza da attribuirsi all’Intesa, vengono, pertanto, in rilievo, innanzitutto, profili di intrinseca contraddittorietà delle ordinanze le quali, pur richiamando l’Intesa adottata in sede di Conferenza Unificata, se ne discostano sia quanto a durata massima giornaliera del periodo di non funzionamento degli apparecchi da gioco, sia quanto alla completa omissione della previa intesa con l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Infine, si consideri che tale Intesa è stata espressamente richiamata dalla successiva L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), che all’art. 1, comma 1049, stabilisce che le Regioni adeguino la propria legislazione a quanto sancito dalla stessa (v.: Cons. Stato, sez. III, 19 dicembre 2019, n. 8563).

Il distanziometro, ratio e profili di criticità

Quella del distanziometro può definirsi una misura di «prevenzione logistica» (Corte cost., 11 maggio 2017, n. 108) della dipendenza da gioco d’azzardo che, dopo essere stata sperimentata a livello locale tramite regolamenti e ordinanze di autorità comunali, è stata adottata negli ultimi anni a livello legislativo da larga parte delle Regioni. Si traduce, essenzialmente, nella previsione di distanze minime delle sale da gioco rispetto a luoghi cd. sensibili perché frequentati da categorie di soggetti che si presumono particolarmente vulnerabili di fronte alla tentazione del gioco d’azzardo.

Il dato normativo nazionale è quello ex art. 7 Decreto Balduzzi che esordisce stabilendo, al comma 1, che l’esercizio delle sale da gioco e l’installazione di apparecchi da gioco di cui all’art. 110, comma 6, TULPS, nonché di «ogni altra tipologia di offerta di gioco con vincita in denaro» sono «soggetti al regime autorizzatorio previsto dalle norme vigenti».

Il successivo comma 2 soggiunge che, fuori dei casi previsti dall’art. 110, comma 7, TULPS (che individua apparecchi per il gioco lecito di ridotta pericolosità sotto il profilo considerato), «l’autorizzazione all’esercizio non viene concessa nel caso di ubicazioni in un raggio non inferiore a cinquecento metri, misurati per la distanza pedonale più breve, da istituti scolastici di qualsiasi grado, luoghi di culto, oratori, impianti sportivi e centri giovanili, centri sociali o altri istituti frequentati principalmente da giovani o strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o socio-assistenziale e, inoltre, strutture ricettive per categorie protette».

Emerge evidente la non felice formulazione del precetto, che, a causa di una doppia negazione, sembrerebbe primo visu esigere, anziché vietare, la collocazione di sale e apparecchi da gioco in prossimità dei luoghi sensibili («l’autorizzazione all’esercizio non viene concessa nel caso di ubicazioni in un raggio non inferiore a cinquecento metri»).

Naturalmente la distanza lineare indicata dalla norma segna il distacco minimo delle attività avute di mira rispetto alle aree tutelate: ed è questa l’unica interpretazione che può essere fornita da parte dell’interprete.

Dalla legislazione nazionale si ricava così il principio della necessaria pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco, allo scopo di contenere e contrastare il fenomeno della ludopatia (Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2017, n. 2958).

La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 19 dicembre 2019, n. 8563) ha sottolineato come le disposizioni (nazionale e regionali) sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco dai luoghi sensibili siano dirette al perseguimento di finalità, in primis, di carattere socio-sanitario ma anche attinenti al governo del territorio, sotto i profili della salvaguardia del contesto urbano.

I poteri in questione incidono, dunque, in netta prevalenza, in materie oggetto di potestà legislativa concorrente, nelle quali la Regione, ai sensi dell’art. 117, III, Cost., può legiferare nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale (v. anche Corte Cost., 18 luglio 2014, n. 220).

Successivamente al Decreto Balduzzi l’art. 14 della L. 11 marzo 2014, n. 23 ha conferito al Governo la delega legislativa per il riordino in un codice delle disposizioni vigenti in materia di giochi pubblici, prevedendo, tra i criteri di delega – assieme a quello dell’adeguamento della normativa «all’esigenza di prevenire i fenomeni di ludopatia ovvero di gioco d’azzardo patologico e di gioco minorile» (lettera a del comma 2) – l’altro della fissazione «di parametri di distanza dai luoghi sensibili validi per l’intero territorio nazionale», ma con espressa garanzia della «salvaguardia delle discipline regolatorie nel frattempo emanate a livello locale», che risultassero coerenti con i principi stabiliti dal decreto delegato (lettera e del comma 2).

Ciò a dimostrazione del fatto che simili discipline potevano essere medio tempore adottate anche in assenza della pianificazione prevista dal Decreto Balduzzi.

La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 10 febbraio 2016, n. 579; Cons. Stato, sez. V, 1 agosto 2015, n. 3778; Cons. Stato, sez. V, 23 ottobre 2014, n. 5251) ha individuato lo spazio di intervento del legislatore regionale, pur nell’assenza delle norme esecutive nazionali, nel rispetto dei principi fondamentali desumibili dalla legislazione statale, nella possibilità di individuare sia distanze minime da rispettare, sia ulteriori spazi collettivi, espressione di analoghe esigenze di tutela, rispetto a quelle già insite nelle strutture di aggregazione indicate dal legislatore nazionale.

Orbene, fatte tali premesse, va rilevato che il metodo del distanziometro, lungi dall’essere contrastato nella legislazione nazionale e regionale, o nella giurisprudenza, rappresenta, a tutt’oggi, uno degli strumenti cui è affidata la tutela di fasce della popolazione particolarmente esposte al rischio di dipendenza da gioco (Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2019, n. 1806; Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1618; Cons. Stato, sez. V, 6 settembre 2018, n. 5237).

Orbene, centrale, a questo punto, è il rilievo per cui, a fronte di un’attività ammessa, lecita e disciplinata dalla normativa statale, l’ente locale non può adottare provvedimenti che finiscano per inibire completamente il suo esercizio, «poiché in tal modo verrebbe sostanzialmente espropriato il diritto di iniziativa economica» (T.a.r. Toscana, Sez. II, 18 maggio 2017, n. 715).

Non può quindi un regolamento, per l’ampiezza e la genericità delle dizioni in esso contenute, finire con il vietare l’apertura degli esercizi di cui si tratta in tutto il territorio del Comune di riferimento (ponendo così in essere un inaccettabile fenomeno cd. espulsivo) (Cons. Stato, sez. V, 13 giugno 2018, ord. n. 3264).

Il Tribunale Ordinario di Torino (sez. III, ord. 31 ottobre 2018) è intervenuto nel contesto di in una vicenda nella quale correttamente (trattandosi di un profilo non contestato) il gestore di una sala giochi osservava che, applicando il distanziometro previsto dalla Regione Piemonte, sul 99,32% del territorio comunale non era possibile collocare apparecchi da gioco (ciò, di fatto, si traduceva in quell’inammissibile divieto generalizzato di gestire macchinette sull’intero territorio comunale).

Resta, infine, da precisare che la Circolare del Ministero dell’Interno del 19 marzo 2018 ha chiarito «che la Questura in sede di rilascio della licenza ex art. 88 del TULPS debba tenere conto anche della disciplina regionale e locale in tema di distanze minime da luoghi qualificati come “sensibili”».

In Cons. Stato, sez. III, 27 luglio 2018, n. 4604 si sottolinea come il Questore sia tenuto, per il rilascio dell’autorizzazione, a verificare la sussistenza non soltanto dei requisiti stabiliti dalla legislazione di polizia ma anche di quelli previsti dalle ulteriori fonti normative e ordinamentali, tra le quali assume una specifica valenza proprio la legislazione regionale in materia di rispetto delle distanze minime dai luoghi sensibili (T.a.r. Campania, Napoli, sez. III, 22 agosto 2019, n. 4389).

Altro punto di fondamentale importanza è avere regole certe quanto alle modalità da seguire per effettuare il calcolo delle distanze.

In molte Regioni tale distanza oscilla fra i trecento e i cinquecento metri e, sul metodo del relativo calcolo, si fa solitamente riferimento al più breve tragitto pedonale.

Si consideri che per percorso pedonale «s’intende quello ordinariamente percorribile mediante una normale deambulazione, senza particolari ostacoli naturali …). In questo contesto di normale deambulazione non sembra rientrare, di necessità, anche la scrupolosa osservanza delle disposizioni amministrative relative ai passaggi pedonali; il percorso pedonale pertanto potrà prescindere dagli attraversamenti pedonali segnalati, a meno che le circostanze di fatto non siano tali da costituire veri e propri ostacoli materiali all’attraversamento fuori dei punti stabiliti (si pensi… all’attraversamento di un’autostrada, che espone a rischi particolarmente elevati, e come tali assimilabili a un ostacolo vero e proprio)… Questa conclusione è rafforzata dalla considerazione che siffatti passaggi pedonali, risultanti da una mera indicazione simbolica, ma non corrispondenti a una particolare configurazione del terreno, hanno la caratteristica, non irrilevante, di essere soggetti a frequenti modificazioni e spostamenti (…) sicché sarebbe arbitrario assumerli come determinanti ai fini del calcolo delle distanze» (Cons. Stato, sez. III, 28 settembre 2015, n. 4535).

Il cennato fenomeno c.d. espulsivo, a ben vedere, va apprezzato con riguardo non solo alla distanza ma anche al numero e alla tipologia di luoghi sensibili individuati, tenuto conto della natura non tassativa dell’elencazione contenuta nell’art. 7, comma 10, Decreto Balduzzi.

La Corte Costituzionale ha ritenuto non irragionevoli le scelte regionali di ampliare il numero dei luoghi sensibili, includendovi persino luoghi adibiti ad «attività operative nei confronti del pubblico» che «si configurano altresì come luoghi di aggregazione, in cui possono transitare soggetti in difficoltà» (così considerando legittima anche l’inclusione delle caserme, v. sentenza n. Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 27).

Orbene la previsione di distanza, per avere un senso ed essere efficace, deve essere reale e non puramente virtuale facendosi così riferimento alla distanza reale tra due luoghi, calcolata in base al percorso più breve riferito unicamente a un cammino pedonale (rilevando dunque la norma dell’art. 190 Codice della Strada).

In questi termini si pongono espressamente:

  • T.a.r. Toscana, Firenze, sez. II, 8 luglio 2015, n. 1015 secondo cui: «500 metri calcolati come raggio di un cerchio corrispondono alla stessa distanza su un percorso in linea retta, ma possono corrispondere a distanze ben maggiori su percorsi diversi; in altre parole, una distanza inferiore a 500 metri calcolati in base al raggio può corrispondere, nella realtà, a un percorso di lunghezza nettamente superiore, mentre una distanza appena maggiore di 500 metri calcolati in base al raggio coincide con la distanza reale su un percorso in linea retta; la differenza è però che nel primo caso, applicando letteralmente la disposizione ex art. 4 comma 1 della L.R. n. 57/2013, il relativo divieto opera(va) anche se la distanza reale è (era) ben superiore al limite fissato, mentre non opera nel secondo caso, anche se la distanza reale è (era) inferiore alla prima; – dall’applicazione della norma ancorata al solo dato letterale discenderebbero quindi conseguenze illogiche, non proporzionate rispetto alla finalità perseguite dalla disciplina regionale e discriminatorie rispetto alle diverse attività economiche coinvolte; il che potrebbe indurre a dubitare della stessa legittimità costituzionale della disposizione; tutto ciò può essere evitato attribuendo all’espressione “raggio di 500 metri” un significato non tecnico (nel senso precedentemente descritto), bensì riferito alla distanza reale tra due luoghi, calcolata in base al percorso più breve. E non può ritenersi un caso che con la L.R. n. 85/2014 (di pochi mesi successiva al provvedimento impugnato) l’art. 4 comma 1 della L.R. n. 57/2013 sia stato così sostituito: “È vietata l’apertura di centri di scommesse e di spazi per il gioco con vincita in denaro a una distanza inferiore a 500 metri, misurata in base al percorso pedonale più breve, da istituti scolastici di qualsiasi grado, luoghi di culto, centri socio-ricreativi e sportivi o strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o socio-assistenziale”. Evidentemente lo stesso legislatore regionale si è reso conto delle criticità e dei possibili effetti controproducenti del testo originario e ha ritenuto necessario modificarlo»;
  • Tar Toscana, Firenze, sez. III, 23 ottobre 2017, n. 1268 che si riporta alla sentenza n. 1015 cit. precisando «con riferimento alla misurazione della distanza (tra due punti vendita o per il rilascio di licenze concessioni per le quali è prevista una distanza minima) si è condivisibilmente ritenuto che la distanza va calcolata sulla base del percorso pedonale minimo determinato con il rispetto delle norme del codice della strada, compreso il comma 2 dell’art. 190, “tenendo conto degli attraversamenti stradali consentiti e, in genere, delle norme del codice della strada” (cfr. T.A.R. Sardegna, sez. I 24 maggio 2004 n. 619; T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV 12 agosto 1995 n. 521)».

Più di recente la giurisprudenza (T.a.r. Campania, Napoli, sez. III, 8 gennaio 2019, n. 80) ha evidenziato la necessità di evitare interpretazioni rigidamente formalistiche preferendo una lettura più elastica della norma in modo da adattarla alle peculiarità del caso concreto (superamento di scalini o gradini etc.).

Vera Tricarico

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