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Facebook (e gli altri): la Cassazione si esprime

Due recenti casi riportano in auge l’attenzione nei confronti dei social network – Facebook in particolare – e le norme poste a tutela degli utenti in materia di diffamazione e dati personali.
Offese
È la sentenza della Cassazione n. 49506 del 27 ottobre 2017 a sancire che le offese via Facebook sono paragonabili a quelle perpetrate su altri canali e, per questo, non meno punibili. Il caso in questione, in via non secondaria, dimostra come sia inutile trincerarsi dietro la scusante di un falso account: foto, post e denunce di identità virtuale sono prove schiaccianti per inchiodare il titolare del profilo alle proprie responsabilità.
La mala-condotta social è quella di un operaio dell’Ilva, il quale viene accusato di aver infangato la reputazione del suo capo tramite messaggi contenenti riferimenti ad atteggiamenti autoritari dello stesso nei confronti dei sottoposti. Il tutto tramite un account creato ad hoc.
Cadono le tesi della difesa, le quali propendevano per un gioco di ruolo inscenato dall’uomo fino ad arrivare alla carenza di prove e alla mancata assunzione della prova decisiva. Non ha trovato margine nemmeno la motivazione in considerazione del fatto che, nella sentenza impugnata, non era stato chiarito se i messaggi scritti su Facebook fossero o no mano dell’operaio. Tesi che trova ampio spazio sull’impossibilità di avere certezze tecniche a riguardo.
L’accusa, però, è stata chiara. Per ricondurre il tutto all’operaio è bastata valutare la riconducibilità tra foto, account e un post in cui si faceva riferimento a una querela subita. Perciò la Corte di Cassazione si è trovata a confermare la condanna già espressa dal tribunale di Trapani: 1000 euro di multa più il risarcimento danni.
Dati personali
Tocca alla showgirl Wanda Nara fare i conti con un’accusa riguardante la diffusione sui social network del numero di cellulare dell’ex marito Maxi López. Su di lei, quindi, graverebbe il reato di trattamento illecito di dati personali, previsto e punito con la reclusione fino a 2 anni dall’articolo 167 del D.lgs 196/2003 (c.d. Testo Unico in materia di privacy).
L’accusa è possibile in quanto il nostro ordinamento prevede il divieto di divulgazione dei dati personali altrui senza il consenso dell’interessato (art. 23 D.lgs 196/2003). Questi dati sono il numero di telefono, la targa di un veicolo, il codice fiscale, una fotografia, l’indirizzo e-mail e tutto ciò che può portare all’identificazione di una persona.
In aggiunta alla divulgazione, se fatta senza il consenso del soggetto interessato, può integrarsi un supposto danno subito dalla vittima, il quale non deve essere per forza patrimoniale, ma anche solo morale. Un esempio può essere la sentenza n. 26680/2004, in cui la Cassazione ha ritenuto sussistente il danno all’immagine nel caso di un fidanzato che aveva divulgato in rete le foto e il numero di telefono della sua ex in ragione della “lesione della tranquillità e dell’immagine sociale subita dall’interessata”.
Nel caso di Wanda Nara, l’accusa dovrà dimostrare l’effettiva diffusione del numero di telefono e il danno derivante. Come prova non basterà uno screenshot, ma non si dovrà comunque dimostrare l’effettiva paternità del post in questione, in quanto per la giurisprudenza si presume che l’autore del post sia il titolare del profilo incriminato.
Per quanto riguarda il danno, invece, la Corte di Cassazione asserisce che basta a integrarlo anche la perdita di tempo nel vagliare mail indesiderate (Corte di Cassazione, sez. III, sentenza n. 23798, 24 maggio 2012).
La difesa, dal suo canto, potrà negare di aver pubblicato il post, con conseguente annullamento del danno sostenuto dall’accusa. Quello che non potrà fare, invece, sarà sostenere per fini assolutori di aver cancellato il post dopo pochi secondi. Il reato, infatti, si perfeziona nel momento stesso in cui viene commesso, in quanto consente a chiunque di prendere cognizione del numero di telefono riservato (anche se solo per pochi secondi).
Può sussistere, in tutto ciò, una responsabilità di Facebook o altre piattaforme?
Nei casi appena presi in esame no, come disposto dagli artt. 16 e 17 del D.lgs 70 del 2003. Tuttavia, se il social network si fosse rifiutato di cancellare il post incriminato a seguito di segnalazione dalla parte offesa, la responsabilità potrebbe emergere. La circostanza, però, sembra non essersi verificata nei casi esposti.
 

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Fonte: IlSole24Ore
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emanuelesecco

Dottore in Editoria e Giornalismo. Appassionato di scrittura, editoria (elettronica e digitale), social media, musica, cinema e libri. Viaggio il più possibile, ma Budapest è sempre nel cuore.

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