Diritto medico

Legge Balduzzi sulla Sanità: la Responsabilità medica

È dal 1999, con la nota sentenza n. 589/99 della Suprema Corte, che i magistrati e gli avvocati possono contare su di una certezza in materia di r.c. sanitaria: si tratta, come immaginabile, della natura contrattuale della responsabilità dei medici, che dal detto revirement di inizio millennio è un principio cardine dei giudizi per malpractice medica.

E tale approdo, si noti, non è certo stato raggiunto grazie all’intervento del Legislatore.

Infatti, può considerarsi che da tempo, se non addirittura da sempre, sono state la dottrina e la giurisprudenza a muoversi entro gli spigolosi ed oltremodo dibattuti spazi che occupa la disciplina in esame; e questa sorta di “collaborazione”, invero, sia pure a seguito di dibattiti, critiche e riserve mosse da un lato e smentite dall’altro, ha portato a delineare una disciplina della responsabilità sanitaria che, se anche non da tutti condivisa ed apprezzata, ha il merito di essere perlomeno chiara nei principi da essa configurati, secondo i quali:

1. la responsabilità civile di medici, liberi professionisti o dipendenti, e strutture sanitarie, pubbliche o private ha natura contrattuale, e può fondarsi o su di un vero e proprio contratto, ovvero sul c.d. contatto sociale;

2. il paziente che si ritenga danneggiato deve fornire la prova, durante la causa, del solo titolo della richiesta (contatto sociale con il medico, ovvero contratto di spedalità con il nosocomio, che si perfeziona automaticamente con l’accettazione nella struttura) e del danno patito, essendo tenuto alla mera allegazione dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento del dottore (principio della vicinanza della prova) e del nesso causale tra questi ed il danno subito, sempre che l’allegazione dello stesso non sia generica, ma individui un inadempimento astrattamente efficiente alla produzione del danno;

3. il dottore, invece, è tenuto ad un onere probatorio assai più gravoso, potendo andare esente da responsabilità solo dando prova dell’adempimento diligente, prudente e perito ovvero del fatto che il danno sia stato causato da un evento imprevisto ed imprevedibile e quindi a lui non imputabile, salva l’esenzione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c., invero assai raramente riconosciuta dalle Corti, che esclude la responsabilità del medico incorso in colpa lieve nella prestazione di un intervento di speciale difficoltà.

È evidente, insomma, che da un lato è richiesto al medico, nell’esercizio della propria prestazione professionale, un elevatissimo grado di esperienza e capacità e che, dall’altro lato, l’attuale disciplina della responsabilità medica gioca tutt’altro che a favore della categoria sanitaria, pur dovendosi almeno riconoscere la chiarezza dei suoi confini, ormai consolidati tra le Corti di legittimità e di merito.

1) Le novità introdotte dalla c.d. Legge Balduzzi

Recentemente, l’equilibrio con fatica raggiunto in ambito di responsabilità sanitaria, ha rischiato di essere compromesso dall’entrata in vigore della nuova Legge 8 novembre 2012, n. 189 di conversione, con modificazioni, del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, “recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”.

Questa nuova disciplina legislativa, la c.d. Legge Balduzzi, interviene in un settore nuovo per il Legislatore, che, in precedenza, si era mostrato mero osservatore passivo del percorso intrapreso dalle Corti e dai teorici del diritto in ambito sanitario: ora, invece, e per la prima volta nella storia della nostra legislazione, una Legge interviene a regolare questo delicatissimo settore elaborando una disciplina di carattere generale che si presta ad essere applicata a tutti coloro che, a vario titolo, possono definirsi esercenti la professione sanitaria.

Ebbene, se anche tale disciplina, come si è detto, è stata dettata dall’esigenza di razionalizzare compiutamente il comparto sanitario nella sua variegata composizione, non può che considerarsi come assuma un ruolo principale e fondamentale per questa trattazione l’art. 3 della suddetta Legge, che si propone di modificare i principali aspetti disciplinari della responsabilità civile e penale medica, in modo tale da ordinare definitivamente i traballanti settori del rischio clinico e del suo costo per oneri assicurativi, al dichiarato fine di contenere e combattere il fenomeno della medicina difensiva.

La parte più innovativa (e più osteggiata) della norma in esame è, senza dubbio il comma 1, secondo il quale “gli esercenti la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività terapeutica o diagnostica abbiano seguito le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non rispondono penalmente per colpa lieve, restando comunque fermo, in tali ipotesi, l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile”.

Da una prima lettura della norma potrebbe sembrare che il Legislatore abbia, da un lato, introdotto un’esclusione dall’area del penalmente illecito, che si realizza quando un medico, con colpa lieve, cagioni delle lesioni o provochi la morte di un paziente pur avendo seguito pedissequamente le linee guida; dall’altro, egli avrebbe capovolto la natura della responsabilità civile dei medici e delle strutture sanitarie, portandola da contrattuale ad extracontrattuale.

Se così fosse, il risultato dal punto di vista civile sarebbe dirompente: la responsabilità extracontrattuale di cui all’art 2043 c.c. porterebbe sul paziente che agisce in giudizio l’onere di fornire la prova del danno, dell’inadempimento e del nesso di causa, non sussistendo più alcuna presunzione di colpa in capo al medico, con abbreviazione, peraltro, dei termini prescrittivi da dieci a cinque anni.

Certo, stando così le cose, tale disposizione ben potrebbe essere considerata uno strumento assai intenso alla lotta contro la medicina difensiva; tuttavia essa, nella frettolosità forse della sua redazione, rischia di lasciare irrisolti aspetti talmente rilevanti da rendere la stessa normativa pressoché ininfluente sullo stato dell’arte attuale.

Ebbene, tre sono le interpretazioni avanzate dalla dottrina in riferimento al richiamo che il Legislatore ha fatto dell’art. 2043 c.c., ed altrettante, peraltro, sono le posizioni assunte dalla giurisprudenza, di merito e, infine, di legittimità, pronunciatasi sulla novella disciplina in esame.

Ad una breve analisi di queste posizioni seguirà, poi, una rassegna delle più recenti pronunce giudiziarie, dalle quali, già lo si anticipa, emerge incontrovertibilmente l’ancora attuale (ad oltre 2 anni dall’entrata in vigore della norma di conversione) assenza di un unico orientamento interpretativo sugli effetti giuridici della norma in esame.

2) La tesi dell’ininfluenza della norma sullo stato dell’arte in materia di responsabilità sanitaria

Secondo l’art. 12 delle preleggi, “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del Legislatore”.

Due, dunque, sono i parametri da tenere in considerazione nell’interpretare la norma secondo questo criterio: il significato delle parole nell’accezione ad esse riconducibile in virtù della formulazione testuale, e l’intento perseguito dal Legislatore.

Ebbene, prendendo in considerazione il primo di questi parametri, la dottrina maggioritaria ha concluso per affermare che il richiamo all’art. 2043 c.c. sia una precisazione superflua, tale da non modificare alcunché rispetto al diritto sostanziale precedente, poiché sarebbe volta solo a sottolineare il fatto che, pur beneficiando il medico della esimente penale di cui al primo periodo della norma, egli sarebbe comunque tenuto a rispondere civilmente della sua condotta: in questo caso, quindi, richiamarsi l’art. 2043 c.c. non vale ad escludere automaticamente l’art. 1218 c.c., giacché ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, ubi voluisset dixisset.

Insomma, si sarebbe dinanzi, secondo parte della dottrina, ad una vera e propria sineddoche, per cui il Legislatore sarebbe incorso in una norma monca soltanto nella sua lettera, dovendosi ritenere implicito il richiamo anche all’art. 1218 c.c..

In definitiva, quindi, secondo questa prospettiva, condivisa dal Trib. di Arezzo (sent. 14.02.2013, n. 196) e subito accolta dalla giurisprudenza di legittimità (sent. n. 4030/2013) , il richiamo all’art. 2043 c.c. – che, in effetti, non si rivolge all’intera disciplina contenuta nell’art. 2043 c.c., bensì soltanto “all’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile” – dovrebbe allora essere interpretato come un mero riferimento alla sussistenza del generico dovere di risarcire il danno causato dall’esercente la professione sanitaria nello svolgimento della propria attività, anche nelle ipotesi in cui la responsabilità penale del medesimo debba essere esclusa: un riferimento, peraltro, inutile e superfluo, dato che notoriamente le esimenti penali non si riverberano sulla responsabilità civile .

3) Il criterio del “Legislatore consapevole”

Alla prima interpretazione sopra riportata, parte della dottrina ha mosso forti obiezioni, protese ad affermare che la responsabilità medica andrebbe inquadrata nel paradigma della responsabilità aquiliana, dovendosi da un lato escludere la possibilità di una così grossolana svista del Legislatore , e potendosi dall’altro lato accogliere ed applicare il criterio del c.d. Legislatore consapevole ed attento al diritto giurisprudenziale vivente .

Insomma, la previsione si concilierebbe con l’intento di scongiurare il fenomeno ed i rischi legati alla medicina difensiva e, nel farlo, avrebbe restaurato il regime di responsabilità civile anteriore al revirement del 1999 , reintroducendo, sulla base del c.d. principio di conservazione delle norme di legge , uno “statuto aquiliano” della responsabilità medica, volto ad imporre ai pazienti danneggiati una disciplina meno favorevole, soprattutto rispetto al termine di prescrizione e all’onere della prova, all’evidente scopo di limitare il ricorso al contenzioso giudiziario, a tutela della categoria medica .

Ebbene, a questa drastica interpretazione alternativa, accolta e prospettata anche dal Tribunale di Torino (sent. 14.02.2013), si è agevolmente contestato che il nostro Legislatore appare, in realtà, assai poco consapevole degli attuali profili accolti dal diritto vivente.

Ciò, invero, risulta chiaramente dalla lettura della Relazione al testo della legge di conversione redatta dal Servizio Studi del Senato, ove con stupore si afferma che “nell’attuale ordinamento è controverso se la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria che operi come lavoratore dipendente o come collaboratore di una struttura sanitaria sia riconducibile alla responsabilità contrattuale o, invece, a quella extracontrattuale”.

Insomma, l’indecisione del legislatore, sul punto, fa sorridere (si fa per dire), se solo si rammenta che è ormai pacifico che a partire dal 1999, con la fondamentale sentenza n. 589, la Suprema Corte ha definitivamente ricondotto la responsabilità medica nell’alveo della responsabilità da contratto, o, meglio, da contatto sociale del medico e della struttura sanitaria (la quale, già prima della detta sentenza, rispondeva contrattualmente sulla scorta dell’ormai consolidata teoria del c.d. contratto di spedalità).

Il nostro Legislatore, quindi, ben lungi dall’essere attento al diritto giurisprudenziale vivente, mostra di essere fermo alla giurisprudenza anteriore al 1999 .

4) Il parziale accoglimento della responsabilità aquiliana nella responsabilità civile medica

Alla luce di quanto finora affermato, sembra non potersi condividere l’assunto di chi ha ritenuto di applicare la normativa in esame attraverso il criterio del Legislatore consapevole; ciononostante, ed allo scopo di voler interpretare la norma in modo tale da non escluderne una possibile influenza innovativa sull’attuale sistema, può nondimeno analizzarsi la posizione di quella parte della dottrina che ha delineato una seconda chiave interpretativa della norma in esame, attraverso il criterio della interpretazione letterale, accogliendo parzialmente l’ipotesi di una disapplicazione dell’art. 1218 c.c. nell’ambito della colpa professionale medica.

Si è osservato, in particolare, che, seguendo il significato delle parole, il Legislatore sembra abbia voluto affermare – quando in apertura del secondo periodo dell’art. 3, comma primo, della Legge in esame ha disposto che in tali casi (quelli cioè nei quali può configurarsi l’esimente penale), resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. – come solo ed esclusivamente in quelle ipotesi (condotta conforme alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica), il medico sia destinatario di un obbligo al risarcimento del danno provocato al paziente.

In definitiva, dunque, l’indirizzo dottrinale in parola sostiene che l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. andrebbe riferito esclusivamente alle conseguenze civilistiche dell’assoluzione penale del medico, il quale, avendo agito solo con colpa lieve, ha beneficiato dell’esimente penale: in questa ipotesi, al danneggiato resterebbe la possibilità di invocare la responsabilità aquiliana del medico, senza potersi avvalere dell’azione ex art. 1218 c.c., con le note conseguenze in ambito di onere della prova e termini di prescrizione.

Condivide, almeno in parte, questo orientamento, la giurisprudenza di merito, che nella sentenza del Tribunale di Varese (sent. 26.11.2012, n. 1406), primissimo contributo alla riflessione in esame, ha per la prima volta preso in considerazione la normativa in oggetto ai fini di valutarne gli effetti sulla responsabilità del medico.

La sentenza, in particolare, partendo dalla considerazione che con la Lege Balduzzi il Legislatore consapevole “avrebbe indicato agli interpreti la preferenza del Parlamento per l’orientamento giurisprudenziale che predica(va) l’applicazione dell’art. 2043 c.c. e non anche lo schema del c.d. contatto sociale”, afferma la parziale applicabilità della norma in esame, privilegiando, tuttavia, una interpretazione restrittiva dell’art. 3, comma primo, della Legge Balduzzi, e restringendosi, di conseguenza, la portata dell’art. 2043 c.c. alle sole ipotesi di responsabilità per “contatto” del solo medico, e cioè quando si palesa l’inesistenza di un vero e proprio vincolo contrattuale, stante il quale, altrimenti, non si dubita della natura contrattuale della responsabilità professionale del medico.

Sostiene, quindi, la pronuncia in esame:

-la struttura della disposizione legislativa, a ben vedere, sembra abbastanza logica, almeno nel suo sviluppo discorsivo: in sede penale, la responsabilità sanitaria è esclusa per colpa lieve (se rispettate le linee guida/buone prassi); in sede civile, invece, anche in caso di colpa lieve, è ammessa l’azione ex art. 2043 c.c. Così facendo, il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana.

Si tratta, invero, di una soluzione mediana dalla non ininfluente portata, la cui applicazione potrebbe favorire l’abbattimento delle condotte difensive dei medici ospedalieri che entrino in contatto sociale con il paziente (che risponderebbero di responsabilità extracontrattuale quando abbiano agito secondo le linee guida), lasciando tuttavia immutata la garanzia di tutela del malato, il quale potrebbe dirigere le proprie doglianze verso la struttura sanitaria (peraltro, patrimonialmente più capiente) che continuerebbe a rispondere secondo il paradigma della responsabilità contrattuale (e lo stesso varrebbe, poi, per il medico libero professionista che abbia concluso un contratto d’opera professionale con il paziente, la cui responsabilità continua ad essere di natura contrattuale).

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Nicolo Maria Vallini Vaccari

Avvocato, Studio Legale & Tributario Vallini Vaccari, Foro di Verona.

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