Cassazione: sfottò su Facebook a operai “scansafatiche” è diffamazione

Quante volte ci siamo sentiti legittimati a pubblicare su Facebook una foto in cui denunciare condotte che riteniamo ingiuste o meritevoli di derisione?
Pubblicare una foto sfottò sui social network non è cosa di poco conto, soprattutto se questa risulta essere svilente per la professionalità dei soggetti ritratti.

È quanto ha concluso la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza n. 11426/2021.

Il caso

L’imputato pubblicò sul suo Facebook una foto ritraente quattro operai del Comune di Cecina durante lo svolgimento delle loro mansioni. La didascalia, presto fatta: «Stazione di Cecina, uno lavora, uno tiene il secchio e due si occupano di relazioni istituzionali, una specie di corpo diplomatico».

Confermata la condotta diffamatoria nei primi due gradi di giudizio, l’imputato ha fatto ricorso in Cassazione presentando le seguenti motivazioni:

La decisione

Nonostante il ricorrente abbia dimostrato di aver difeso i quattro operai dagli attacchi che si sono susseguiti in seguito alla pubblicazione della foto, la diffamazione è scattata con la pubblicazione stessa. Come già rilevato dai giudici di merito, infatti, è la tipologia della comunicazione a essere diffamatoria, in quanto non tiene conto del fatto che i quattro operai si stavano dividendo il lavoro dandosi il cambio. Bocciate, quindi, le prime due motivazioni.

Per quanto riguarda la critica politica, i giudici hanno rilevato come «le affermazioni adoperate sono prive di razionale correlazione con una base fattuale obiettiva». Rappresentare un momento dell’attività lavorativa non è come rappresentarla nella sua interezza, specie se tale critica investe la diligenza e l’impegno di chi ne è coinvolto. «Non è sufficiente un qualunque collegamento con singoli episodi a giustificare conclusioni critiche che, aspre o non che siano nei toni, offendono la reputazione dei soggetti interessati, finendo per essere suggestive ed insinuanti, nella misura in cui lasciano intendere ai destinatari della comunicazione che quei singoli episodi siano […] espressione di una condotta generalizzata». Cade, quindi, anche la terza motivazione.

Rigettato il ricorso, in conclusione, l’imputato è stato condannato a pagare le spese processuali.