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Biennale di Venezia: blasfemia con 50 sfumature di censura

La fondazione La Biennale di Venezia è stata convenuta in giudizio per la partecipazione del balletto Messiah Game, rivisitazione sadomaso della Passione di Cristo.
La richiesta del ricorrente verte sul risarcimento del danno non patrimoniale, a seguito del contenuto gravemente offensivo per il comune sentire medio del cittadino cattolico.
Ci sarebbe molto da discutere su cosa sia esattamente “il comune sentire medio del cittadino cattolico” ma possiamo anche passare oltre.
Sia il Tribunale di Venezia che la Corte d’Appello hanno rigettato il ricorso, non solo perché il principio della laicità dello Stato impedisce che il singolo possa invocare la proibizione di manifestazioni di pensiero, e qui potremmo anche scusare il ricorrente religioso, che deve avere inavvertitamente scambiato la democrazia italiana con la teocrazia vaticana, ma anche e soprattutto per non aver partecipato allo spettacolo in questione.
Non si capisce come sia possibile quantificare il danno non patrimoniale laddove il ricorrente sia stato soggettivamente impossibilitato a subire lo sgomento e la sofferenza che avrebbe potuto patire se avesse assistito allo spettacolo. Purtroppo il tempo non sempre riesce a sanare le ferite, soprattutto quelle immaginarie.
Il ricorrente ha quindi fatto ricorso in Cassazione, in quanto «l’invito a partecipare al Festival della Danza 2007, avanzato dalla Biennale al produttore del balletto di contenuto blasfemo, deve ritenersi effettuato in violazione del dovere del funzionario pubblico di operare con imparzialità nei confronti di tutti i cittadini e di non offenderne alcuno». Ancora, «il principio della laicità dello Stato comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose, con conseguente dovere di garantire, rimanendo neutrale e imparziale, l’esercizio delle diverse religioni, culti e credenze e di assicurare la tolleranza anche nelle relazioni tra credenti e non credenti».
La Cassazione respinge in toto le pretese dell’attore: non solo la sentenza n. 57/1976 della Corte Costituzionale sancisce che le manifestazioni artistiche possano svolgersi senza dover subire condizionamenti di sorta; la configurazione di un eventuale obbligo d’imparzialità non comporterebbe mai  un obbligo di censura ex ante ma semmai un dovere di non discriminazione. La soccombenza è scontata.
Dedicare anima e corpo contro una Passione di Cristo in versione Cinquanta sfumature di grigio appare assai grottesco, così come lo spettacolo in questione.

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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