Whistleblowing: la Cassazione chiarisce cosa è lecito e cosa no

Non è tutto whistleblowing ciò che luccica, tanto meno se fatto contro le regole.
La sentenza di Cassazione n. 35792/2018 si è espressa in tema, analizzando per la prima volta la legge 179/2017, l’insieme di norme che va a regolare la segnalazione di attività illecite nell’ambiente di lavoro e a tutelare il lavoratore che le acquisisce.
La legge sul whistleblowing, come si evince dal testo, tutela sì chi acquisisce le prove, ma solo se l’attività viene svolta durante il lavoro. Non deve esserci alcun obbligo o accordo verso indagini ritenute illecite.
Il caso esaminato dalla Corte riguarda un dipendente che, col fine di dimostrare la non sicurezza del sistema informatico aziendale, ha utilizzato le credenziali di accesso di un altro dipendente e creato un falso documento di fine rapporto a nome di un individuo mai coinvolto nell’attività lavorativa. Un metodo non meritevole della tutela prevista dalla legge, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, e per il quale è scattata solo la particolare tenuità del fatto in base a quanto previsto dall’art. 131-bis c.p.
La norma d’interesse, specificano i giudici, ha due scopi:

  1. tutelare chi segnala abusi, impendendo ripercussioni a suo danno;
  2. favorire il fatti illeciti all’interno della Pubblica amministrazione, così da remare in contrasto alla corruzione.

È anche vero, però, che la norma non specifica alcun obbligo di «attiva acquisizione di informazioni autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti imposti dalla legge».
Perciò, quanto commesso dal ricorrente, non può essere giustificato. La sola attività giustificabile è quella che non si inserisce «con rilevanza causale» nello svolgimento dell’atto criminoso, ma interviene in «modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui».

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Fonte: IlSole24Ore