Social network e ingiuria: reato anche quando in difesa di Mattarella

L’ingiuria via Facebook al fine di difendere il prestigio del Presidente della Repubblica, sempre ingiuria rimane.

È il caso esaminato dal Tribunale di Roma con sentenza n. 2875/2020, il quale ha preso il via da un attacco rivolto a Sergio Mattarella da parte di un avvocato e professore universitario. Di seguito il testo:

«AL SIGNOR SERGIO MATTARELLA
Signor Mattarella, prescindo da ogni riguardo cerimoniale e formale. Lei non lo merita. Non la chiamo “Presidente”, lei non è il mio Presidente. Uso la forma del “lei” perché ho interesse a marcare le distanze nonostante che ci si conosca da tempo. E conosco anche la storia della sua famiglia. Lei lo sa.
Quel che lei ha fatto, portando a compimento il piano preordinato del governo tecnico affidato al FMI nella persona di tale Carlo Cottarelli, non è soltanto violativo dell’art. 92 della Costituzione, o di altri articoli di questa. Lei ha minato le fondamenta stesse della Repubblica negando la volontà popolare espressa con il voto. Non posso giustificarla per una evidentemente relativa conoscenza del diritto costituzionale che in modo travagliato la portò ad una idoneità solo come Professore associato, mai Ordinario.
Lei ha negato le radici stesse della democrazia. Faccia almeno la cortesia di non straparlare più di fascismo.
Lei non ha difeso gli interessi dei risparmiatori (è la legge che li deve difendere) ma ha difeso gli interessi di Stati stranieri, della Unione europea, della finanza monetaristica internazionale.
Di questo lei è pienamente consapevole. E non dica che ha inteso difendere altri articoli della Costituzione come l’art. 11 per il tramite di una interpretazione aberrante o l’art. 117 relativo anche alla Unione europea, oppure l’art. 81 concernente quell’infamia che è il pareggio di bilancio.
Per garantire questi articoli, tutti gli articoli della Costituzione, c’è la Corte costituzionale, quella della quale lei è stato membro e che dichiarò la illegittimità del Parlamento che la elesse.
Lei non si rende conto del discredito nel quale ha buttato la sua persona (del che poco mi interessa) destinataria diffusamente di ogni genere di insulti come pur le dovrebbe essere noto, ma ha screditato la Presidenza della Repubblica tramutandola da organo imparziale ad organo di parte politica o organo asservito a interessi stranieri, in danno del Popolo italiano.
Riguardo alla allucinante proposizione di tale Mario Draghi secondo cui bisogna abbassare i salari per salvare l’euro, lei ha scelto quest’ultimo.
Dunque, lei è contro il Popolo italiano e contro i poveri. Nelle dorate stanze che furono sede di Papi e di Re, pensi ogni tanto alle tante famiglie italiane in stato di povertà. Lei è il difensore dei ricchi e degli speculatori finanziari. Non a caso il suo sodale Gentiloni Conte Paolo (ex “Lotta Continua”) ebbe a ricevere il pluriricercato Giorgio Soros senza che mai se ne siano conosciuti i motivi.
In tempi normali si tutela la propria residua dignità con le dimissioni, ma non appartiene a lei la nobiltà di questa decisione, né glielo consentirebbero gli interlocutori che lei si è scelto.
Sicuramente si salverà dalla messa in stato d’accusa ma non si salverà mai dal giudizio politico e morale del Popolo italiano e della storia.
Se ci sarà da scendere in piazza, io sarò in piazza.»

Secca la risposta di un carabiniere sentitosi in dovere di difendere il Presidente della Repubblica: «[…], ma vaffanculo. Tu non sei nemmeno degno di leccare i piedi a Mattarella. E se scendi in piazza ci sarò anch’io, ma dall’altra parte».

Diritto di critica e diritto di onore e reputazione

Il caso in questione si inserisce sì nel dibattito a proposito di diffamazione e social network, ma anche in quello sui limiti della critica politica. Se da un lato quest’ultima prevede la presenza di toni più accesi, questo non vale per le offese gratuite.

I diritti in campo, contrapposti, sono due: diritto alla critica e diritto alla reputazione, tra i quali bisogna operare un attento bilanciamento.

Come osserva la dott.ssa Pratesi, il «vaffanculo» utilizzato dal carabiniere «conserva una valenza obiettivamente denigratoria, se utilizzata in risposta ad affermazioni di tutt’altro tenore linguistico ed al di fuori di contesti giocosi o di veri e propri scontri verbali». E sebbene le altre espressioni utilizzate sono ampiamente riconosciute e “accettate” in ambito social, per l’insulto in esame non è nemmeno possibile considerare l’esimente della provocazione; questa, infatti, lo renderebbe impuniti i reati contro l’onore se venisse riconosciuto che la causa scatenante è una provocazione.

Sempre secondo il giudice, il carabiniere «ha ritenuto di manifestare il proprio dissenso non attraverso la proposizione di argomenti di segno contrario, bensì ricorrendo ad un epiteto volgare che ha rivolto a colui che aveva in qualche modo dato origine alla catena dei commenti, ovvero […], il quale però, a differenza di molti di quelli che lo hanno seguito, ha contenuto il proprio pensiero nella cornice di una legittima manifestazione del diritto di critica». L’espressione «ma vaffanculo» è da considerarsi «una ingiuria non giustificata né dalla condotta dell’offeso, né dal contesto complessivo entro il quale è avvenuta la comunicazione».

Con queste motivazioni, parte offesa ha ricevuto un risarcimento di 2mila euro.

In conclusione, un’altra sentenza si aggiunge a una giurisprudenza sempre più ampia in tema ingiuria/diffamazione e social network.