Il divieto di indossare il velo nel luogo di lavoro è discriminazione?

Corte di giustizia dell'Unione Europea – sentenza nelle cause riunite C-804/18 e C-341/19

Costringere un proprio dipendente a non indossare il velo islamico può essere considerato un atto discriminatorio come no. In ogni caso, per quanto riguarda la legislazione dell’Unione Europea, bisogna ponderare due fattori principali:

  1. la reale esigenza del datore di lavoro;
  2. le disposizioni nazionali in tema di tutela della libertà di religione.

È la risposta che si evince dalla sentenza nelle cause riunite C-804/18 e C-314/19 della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

Il caso

Nel caso in questione, due impiegate di due diverse società tedesche avevano indossato il velo islamico sul luogo di lavoro; tale gesto, però, era contrario all’immagine di neutralità politica, filosofica e religiosa promossa dalle aziende nei confronti dei clienti. In seguito al rifiuto da parte delle dipendenti di togliersi il velo, queste erano state sospese e ammonite; una delle due, in particolare, prima si è vista assegnare a un posto in cui fosse consentito portare il velo, per poi ricevere un’ingiunzione che la obbligava a «presentarsi sul luogo di lavoro priva di segni vistosi e di grandi dimensioni che esprimessero qualsiasi convinzione religiosa, politica o filosofica».

Partiti i due ricorsi nei confronti delle rispettive aziende, la Corte di giustizia dell’UE è stata chiamata a esaminare l’interpretazione della direttiva n. 2000/78 in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Il giudizio

In primo luogo, la Corte ha osservato che l’indossare segni visibili collegati alle proprie convinzioni rientra nella libertà di pensiero, coscienza e religione. Tuttavia, se un’impresa tratta allo stesso modo tutte le manifestazioni di pensiero o religione, non si può parlare di discriminazione.
Nel caso in questione sembra che le due aziende abbiano agito in maniera generale e indiscriminata, tenendo conto del fatto che in precedenza una di queste aveva ottenuto che un’altra lavoratrice non mostrasse la croce religiosa che indossava.

In secondo luogo, la richiesta di non indossare segni religiosi è legittima quando l’impresa vuole perseguire «una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei suoi clienti o utenti». Tale principio, come nell’eventualità analizzata, si applica nel caso in cui sia presente «in materia di istruzione il desiderio dei genitori di far educare i loro figli da persone che non manifestino la loro religione o le loro convinzioni personali». Una tale esigenza da parte dell’impresa può essere riconosciuta quando sia stata fornita «la prova del fatto che, in assenza di tale politica di neutralità, sarebbe stata violata la sua libertà di impresa». Anche in questo caso, comunque, tutte le religioni e convinzioni personali devono essere trattate allo stesso modo.

In terzo luogo, se la finalità dell’impresa è quella di prevenire conflitti sociali o vi è la necessità di presentare il datore di lavoro in modo neutrale nei confronti dei clienti, è giusto non ammettere alcuna manifestazione visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

In conclusione, ricorda la Corte, è giusto che ai sensi dell’art. 2, paragrafo 2, lettera b), i) della direttiva n. 2000/78, spetta ai giudici nazionali «tenere conto degli interessi in gioco e limitare allo stretto necessario le restrizioni alle libertà in questione».

Fonte
curia.europa.eu