Cassazione: non convincono le pene accessorie

Le sanzioni previste per bancarotta non convincono la Corte di Cassazione, tanto che la questione in esame viene rinviata alla Corte Costituzionale. Il tema specifico sollevato con sentenza n. 52613 della V sezione è la durata delle misure accessorie, ovvero la previsione di 10 anni di inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e di incapacità a esercitare gli uffici direttivi presso ogni impresa. La sentenza in esame è stata emessa a seguito di un ricorso presentato da (tra gli altri) Cesare Geronzi e Matteo Arpe, in un filone del crac Parmalat. In appello erano stati inflitti a Geronzi 4 anni e mezzo e ad Arpe 3 e mezzo. Nel capo di imputazione, fatti di bancarotta.

A seguito della decisione sulla non manifesta infondatezza della previsione di un termine ampio e indifferenziato di inabilitazione come sanzione accessoria alla condanna per bancarotta, la Cassazione rimarca che la violazione dei principi costituzionali è possibile sotto più punti di vista. Viene evidenziato, rifacendosi alla sentenza n. 50/1980, come sia una violazione dei principi di uguaglianza, colpevolezza e proporzionalità il fatto che non sia possibile adeguare le pene accessorie alle responsabilità personali.
Oltre a ciò, quello che la Cassazione definisce come un «inflessibile rigore della sanzione interdittiva» può tradursi anche «in una ingiustificata, indiscriminata incidenza sulla possibilità dell’interessato di esercitare il suo diritto al lavoro non soltanto come fonte di sostentamento, anche come strumento di sviluppo della sua personalità». A venire colpito, quindi, è il diritto di iniziativa economica esercitato attraverso l’attività di impresa.

Ulteriore contestazione per infrazione sul concetto di proporzionalità si trova anche nell’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo, dal quale si desume che nella nozione di vita privata rientrano anche le attività professionali e commerciali. Perciò, le limitazioni affrontate si possono vedere come ingerenze nel godimento del diritto al rispetto della vita privata e devono perciò essere proporzionate e finalizzate a uno scopo legittimo.

Di conseguenza, la rigidità di durata della pena accessoria (in quanto automatismo senza possibilità di commutazione) striderebbe con i principi richiamati. La Cassazione, però, propone una conclusione: cancellare la misura fissa dei 10 anni e reintrodurre la regola base dell’art.37 del Codice penale, nel quale si parifica la durata della pena accessoria a quella della pena base.