Tribunale di Verbania, Sez. Lavoro – Sentenza n. 63/2016 del 14.06.2016 (Dott.ssa G. Busoli)

TRIBUNALE ORDINARIO DI VERBANIA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Verbania, nella persona della dott.ssa Giorgia Busoli, in funzione di Giudice del Lavoro, ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. XXX del Ruolo Generale degli affari contenziosi dell’anno 2014 Sezione Lavoro e vertente tra:
R. L., ricorrente, rappresentato e difeso dagli avv.ti V. L. M. ed A. L. M.

e

T. N. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, resistente, con l’avv. B. U.
FATTO
Con ricorso depositato in data 12.12.2014, ritualmente notificato, il sig. L. R. ha adito il Tribunale di Verbania, in funzione di Giudice del Lavoro, al fine di sentir accertare e dichiarare l’illegittimità della sanzione disciplinare della ammonizione scritta comminatagli dal datore di lavoro T. N. s.p.a. in data 03.06.2014.
In particolare, il ricorrente ha esposto:
– di essere dipendente della società convenuta dal 22.10.2012, con qualifica di impiegato di V livello del CCNL Metalmeccanici Aziende Industriali e mansioni di sistemista;
– di prestare la propria attività lavorativa presso il Tribunale di Verbania, in virtù dell’appalto di servizi affidato alla società convenuta dal Ministero della Giustizia;
– di aver ricevuto, in data 26.05.14, una contestazione disciplinare dal seguente tenore letterale: “Egregio Signor R., ci è stata girata uno scambio di e—mail che lei ha indirizzato a numerosi colleghi di lavoro, tutti nostri dipendenti, di contenuto offensivo nei confronti della scrivente azienda e pertanto le contestiamo, in particolare: Ella con mail inviata dall’account di posta aziendale del 15.05.2014, ore 9.27, indirizzata a: (…) afferma: “che sia lecito fare una protesta, non vedo quali problemi si possa recare ai colleghi: ognuno ha le sue idee e prosegue con quelle. Sul fatto che il nostro lavoro è sempre meno professionale questo ormai è da anni che lo sappiamo e tra due anni credo che non ci sarà neanche più questo. Le promesse di aumenti o premi sinceramente non ho mai creduto (solite cose che si dicono per tenere buoni i lavoratori). Ed ancora: “Arriviamo fino a dove possiamo, poi chi se ne frega. Ho finito di sbattermi: arrivo fino dove riesco e il
resto si accumula al giorno dopo. Buona giornata e non prendetevela. L’unica cosa da fare è riuscire a trovare qualcosa d’altro e andarsene
– di aver respinto gli addebiti con comunicazione del 31.05.14, sottolineando che “La mail che mi contestate è stata male interpretata e comunque non contiene in alcun modo contenuti offensivi nei confronti dell’azienda ma serviva semplicemente a smorzare la tensione e a placare eventuali nuovi contenuti. Nella mail da me scritta, si riporta semplicemente una considerazione sulla protesta fatta dal mio collega M.; un’altra considerazione è che il nostro lavoro effettivamente è sempre meno professionale (questo non è imputabile all’azienda); il personale è ridotto all’osso e quindi si arriva fin dove si può (l’affermazione della mail è più colorita in quanto sto parlando i colleghi e comunque il poco personale non dipende dall’azienda ma dal contratto che l’azienda ha con il Ministero. Sulle promesse di aumenti, anche le precedenti aziende lo hanno fatto e come quella attuale la giustifico per il momento economico difficile e quindi il “non ci credo ” usato nella mail è proprio per questo motivo. Ritengo, peraltro, di aver usato toni tranquilli e di non aver offeso nessuno in quanto non è nel mio stile, anzi sono sempre stato accusato in 14 anni di essere aziendalista”;
– di aver ricevuto, nonostante le tempestive osservazioni formulate, provvedimento datato 14.6.2013, con cui l’azienda gli irrogava la sanzione dell’ammonizione scritta, ivi impugnata in quanto illegittima, asseritamente non presentando il proprio comportamento alcun rilievo disciplinare.
Con memoria del 10.09.2015, si è costituita in giudizio la T. N. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, deducendo la piena legittimità della sanzione disciplinare irrogata al dipendente e chiedendo, pertanto, il rigetto del ricorso.
Istruita unicamente attraverso le produzioni documentali delle parti, la causa è stata discussa e decisa all’odierna udienza, con sentenza di cui si è data pubblica lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento alle luce delle seguenti considerazioni.
Occorre premettere che il diritto di critica del lavoratore subordinato trova la propria causa di giustificazione nel comma 1 dell’art. 51 c.p., il quale, a sua volta, richiama, oltre alla generica libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., la più specifica libertà di opinione di cui all’art. 1 della legge 20 maggio 1970, n. 300.
Tale disposizione riconosce, in favore dei lavoratori, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero senza distinzione di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa; è un riconoscimento che, pur riaffermando un diritto fondamentale della persona già riconosciuto in via generale dall’art. 21 Cost., opera una specifica ricognizione nell’ambito di un tipico rapporto di diritto privato connotato dall’esercizio di poteri privati.
La disposizione è inoltre attuativa della prescrizione dell’art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo anche all’interno delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, quale deve considerarsi l’azienda dove il lavoratore presta la sua attività.
Tale libertà può essere esercitata con qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero e non è limitata alla materia politica, religiosa o sindacale, espressamente menzionata dall’art. 1 dello Statuto, coincidendo con l’area coperta dalla garanzia approntata dall’art. 21 Cost.
Com’è noto, la predetta disposizione non prevede alcuno strumento di tutela, ma è evidente che, qualora la condotta del datore di lavoro diretta a “reprimere” il diritto di manifestazione del pensiero del lavoratore si traduca in un’attività giuridica, ne deriverà l’illiceità della stessa: in altri termini, devono ritenersi illegittimi il licenziamento o la sanzione disciplinare che trovino ragione nella manifestazione del pensiero da parte del lavoratore.
Peraltro, quando la manifestazione del pensiero si traduca in una critica mossa nei confronti dello stesso datore di lavoro, tale libertà, oltre a non dover, ovviamente, sconfinare nell’ambito della diffamazione, deve altresì fare i conti con la possibile incidenza della manifestazione del proprio pensiero sul vincolo fiduciario intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore.
A tale riguardo, la giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. 25/2/1986 n. 1173), ha avuto modo di osservare che, al fine di stabilire se la diffusione di notizie che discreditano il datore di lavoro e la sua attività rientri nella libertà in questione, occorre accertare: a) se i comportamenti addebitati si traducano in una obiettiva lesione della reputazione dell’impresa e dei suoi dirigenti; b) se le accuse (in ipotesi) infamanti siano state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti; c) se le modalità e l’ambito di diffusione delle notizie siano ragionevolmente adeguati alla protezione di tali interessi; d) se i fatti denunziati siano in parte o in tutto veri e come tali apprezzati dai diffusori.
Nel caso di specie, secondo parte convenuta, il ricorrente avrebbe travalicato il limite al diritto di critica rappresentato dalla veridicità dei fatti (c.d. continenza sostanziale), rilevando come, contrariamente a quanto lasciato intendere dal lavoratore con l’espressione “Le promesse di aumenti o premi sinceramente non ho mai creduto (solite cose che si dicono per tenere buoni i lavoratori)”, siano invece sempre stati riconosciuti al sig. R. gli scatti di anzianità maturati e gli aumenti retributivi relativi agli intervenuti rinnovi del contratto nazionale di categoria e come non sia mai stata paventata dalla società alcuna diversa promessa di “aumento di stipendio” e/o di “premi””.
Inoltre, il R. avrebbe superato il limite della continenza formale, secondo il quale ogni opinione o espressione deve essere conforme ai parametri di correttezza e civiltà desumibili dalle norme del vivere civile, utilizzando espressioni dai toni ineducati e offensivi, quali “arriviamo fine a dove possiamo, poi chi se ne frega. Ho finito di sbattermi: arrivo fin dove riesco il resto si accumula il giorno dopo” .
Infine, le espressioni utilizzate dal ricorrente avrebbero oltrepassato il cd. limite esterno di critica, in ragione del quale il Giudice è tenuto verificare se la critica del lavoratore sia finalizzata o meno alla salvaguardia di interesse o di un bene giuridicamente riconosciuto e di pari o superiore dignità rispetto al diritto del datore di lavoro alla reputazione, al decoro e al prestigio.
Orbene, ritiene questo Giudice che le espressioni contenute nella mail inviata dal ricorrente ai propri colleghi di lavoro in data 15.05.2014 (cfr. doc. 3), oltre a rientrare nel diritto di critica e più in generale nella libertà di parola, non siano in alcun modo dirette ad offendere o a ledere il decoro datore di lavoro, rappresentando un legittimo “sfogo” del lavoratore privo di qualsivoglia finalità denigratoria o infamante.
In particolare, non è riscontrabile alcun intento diffamatorio nell’esprimere la propria opinione sulla diminuita professionalità del lavoro svolto, né tantomeno nel rappresentare la difficoltà incontrate dai dipendenti nello smaltire le proprie incombenze durante l’orario di lavoro a causa della evidenziata carenza di personale.
Peraltro, le considerazioni svolte dal ricorrente non sembrano riguardare direttamente la società convenuta, inserendosi in un discorso di ordine generale, ed essendo le criticità lamentate dal R. ascrivibili più alle condizioni dell’appalto ottenuto dal Ministero della Giustizia che non al comportamento della società datoriale.
Quanto all’infondatezza della evidenziata “promessa di aumenti o premi”, alla quale il ricorrente ha affermato di non aver “mai creduto”, si sottolinea come in tale espressione non sia ravvisabile un’accusa specifica nei confronti della T. N. s.p.a., dovendo detta frase essere letta unitamente all’inciso successivo ( “solite cose che si dicono per tenere buoni i lavoratori”), il quale evidenzia la portata generale del discorso affrontato dal R..
Infine, espressioni quali “arriviamo fine a dove possiamo, poi chi se ne frega. Ho finito di sbattermi: arrivo fin dove riesco il resto si accumula il giorno dopo”, per quanto colorite, non possono certamente ritenersi lesive dei parametri di correttezza e civiltà desumibili dalle norme del vivere civile.
In ultima analisi, non può non tenersi conto del contesto generale nel cui ambito è stata inviata la mail in oggetto, dal cui tenore complessivo si evince, peraltro, come lo scopo del lavoratore non fosse quello di polemizzare o di alimentare dissapori nei riguardi della T. N., quanto piuttosto quello di sdrammatizzare una “protesta” già in atto: emblematica appare, in tal senso, la frasi di chiusura adoperata dal R. (“buona giornata e non prendetevela””).
Alla luce delle superiori considerazioni, pertanto, deve dichiararsi l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata al lavoratore, rientrando le espressioni dallo stesso utilizzate nel diritto, costituzionalmente garantito, di libera manifestazione del pensiero.
Le spese seguono la soccombenza, come di norma, e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale di Verbania, in funzione di Giudice del Lavoro, visto l’ art. 429 c.p.c., definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, ogni diversa istanza, deduzione ed eccezione disattesa, in accoglimento del ricorso, così provvede:
– dichiara l’illegittimità della sanzione disciplinare dell’ammonizione scritta comminata a L. R. dalla T. N. s.p.a. in data 3.06.2014;
– condanna parte convenuta al pagamento delle spese di lite, liquidate in €1.961,00, oltre a spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge, da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari.
Verbania, 14 giugno 2016
Il Giudice
Giorgia Busoli

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