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Tribunale di Modena: la correlazione tra errore medico e morte

Commento a sentenza n. 1236/2018 del 04/07/2018, sezione Prima Civile (leggi il testo integrale)
Premessa
Nella vicenda storica in oggetto, un’errata tecnica chirurgica nell’esecuzione di un intervento di termoablazione da parte dei sanitari del Policlinico di Modena ha causato il decesso della paziente B. B. L’errato intervento ha comportato la perforazione del colon della detta paziente a cui è conseguita, dopo un travagliato decorso post-operatorio, la morte. Con la sentenza in oggetto il Tribunale di Modena ha condannato l’ente ospedaliero, unico convenuto, al risarcimento del danno ai congiunti della vittima.
Il Giudice, al fine di verificare il nesso causale intercorrente tra il presunto errore medico e l’evento morte, ha disposto Consulenza Tecnica d’Ufficio. Quest’ultima ha innanzitutto escluso che la complicanza letale fosse un evento non prevedibile, come peraltro sostenuto dal convenuto, ma ha opportunamente evidenziato la sussistenza del nesso tra errata operazione e decesso. In particolare, il Consulente, nella propria relazione, afferma che è da ritenersi «concretamente probabile che durante il trattamento di termoablazione sia stata causata la lesione del colon, che costituisce un’eventualità tanto prevedibile, quanto evitabile attraverso l’adozione di una corretta tecnica chirurgica».
Quindi, e per chiarire, si deduce come un’adeguata manualità operatoria fosse sufficiente per scongiurare ogni lesione e come, durante l’esecuzione dell’intervento, non sia sopraggiunto alcun fenomeno eccezionale idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento.
Pertanto, alla luce di quanto evidenziato nella consulenza, è facile sostenere che dall’errore medico sia scaturito il progressivo aggravamento del quadro clinico, culminato con il decesso. Dunque, a contrario, è altrettanto agevole sostenere che senza l’errore professionale la paziente sarebbe sopravvissuta e, più rilevante per ciò che ci riguarda, non sarebbe deceduta in tempi brevi.
Causalità civile e adozione del criterio del “più probabile che non”
Nella sentenza in commento viene opportunamente evidenziato che, nel caso di specie, come correttamente motivato nella predetta consulenza, è rispettato il criterio eziologico del “più probabile che non”. Riguardo a ciò paiono doverose alcune considerazioni.
Sul tema, la Suprema Corte, con due fondamentali pronunce (Cass. 21619/2007; Cass. S.U. 581/2008), ha affermato che il concetto di causalità in sede civile non coincide con quello operante in sede penale. Tale premessa va condivisa, poiché lo scopo di ricerca del colpevole, caratteristico del sistema penale, si pone in un’ottica totalmente diversa rispetto alla ristorazione del danno, finalità del processo civilistico.
La menzionata giurisprudenza, con cui è peraltro concorde la maggioranza della dottrina, è incline ad adottare il concetto della ‘causalità adeguata’: la causalità civile va dunque valutata secondo la regola della rilevante probabilità, ovvero si reputano conseguenze collegate da un nesso causale quelle che, in base alla comune esperienza, è oggettivamente probabile derivino da un’azione. In altre parole, la condotta del singolo medico o dell’ente ospedaliero deve aver causato il danno con un grado di probabilità tanto elevato da consentire di escludere la presenza di ulteriori fattori concomitanti o sopravvenuti.
Nell’adozione del criterio del “più probabile che non” risiede la differenza con il campo penalistico. Nel processo penale, infatti, per ricollegare una condotta a un determinato evento deve sussistere un nesso causale provato in termini di certezza (oltre ogni ragionevole dubbio).
In sintesi, la causalità civile è qualificata come una ‘probabilità relativa’, che è senza dubbio assestata su una soglia molto meno elevata di probabilità rispetto a quella penale. Tale differenza è da attribuirsi alle diverse finalità del processo civile rispetto a quello penale.
Responsabilità della struttura e onere probatorio
Nel caso de quo, una volta accertato il nesso eziologico tra condotta dei medici e danno alla paziente, va qualificata la natura della responsabilità civile ascrivibile alla struttura sanitaria, unica convenuta nel procedimento in questione. Tale operazione di inquadramento in responsabilità contrattuale o extra contrattuale ha delle inevitabili ripercussioni sul tema dell’onere della prova.
La responsabilità dell’ente ospedaliero ha senza dubbio natura contrattuale in forza del perfezionamento di un c.d. contratto di spedalità (o di assistenza sanitaria). Quest’ultimo è un contratto atipico a prestazioni corrispettive. Infatti, con l’accettazione del paziente, sorgono in capo alla struttura una serie di obblighi: accanto a quelli latu sensu alberghieri, di maggiore rilevanza è l’obbligazione di compiere l’attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica, in relazione alla specifica situazione patologica del malato. Pertanto, sarà compito dell’ente mettere a disposizione il personale medico e tutte le attrezzature necessarie a garantire il buon esito della prestazione.
Non solo, ma al fine di scongiurare ogni perplessità, si rammenta che l’art. 7 della L. 24/2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco, di riforma della responsabilità medica) prevede che la struttura sanitaria, pubblica o privata, che nell’adempimento dell’obbligazione predetta si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, risponda delle loro condotte colpose o dolose ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.
Individuata pertanto la natura contrattuale della responsabilità della struttura, qualche osservazione ulteriore merita il corollario dell’onere della prova. In materia di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., il danneggiato (paziente) dovrà limitarsi ad allegare l’obbligazione esistente (nel caso di specie, il contratto di spedalità) e il danno subito. Sarà quindi compito del danneggiante convenuto (ente ospedaliero) dimostrare che l’evento si sia verificato per caso fortuito o per forza maggiore e che, nell’adempimento dell’obbligazione, ha tenuto la diligenza qualificata richiesta dalla natura dell’attività esercitata, come richiesto esplicitamente dall’art. 1176 comma 2 c.c.
Alla luce di quanto esposto, emerge che non è onere dell’attore dimostrare la colpa e la gravità della negligenza del medico o della struttura (come avviene nell’ipotesi di resp. aquiliana), bensì sarà onere di questi fornire la prova liberatoria. In altre parole, e per chiarire, il convenuto dovrà dimostrare che il danno si è verificato a causa di un fattore autonomo e indipendente e che quindi l’evento non è allo stesso imputabile.
Si riscontra chiaramente come il legislatore del 1942 abbia previsto un regime probatorio di favore per il debitore – paziente il quale, come ampiamente detto, dovrà limitarsi ad allegare l’esistenza dell’obbligazione e il danno subito. Ne consegue una presunzione di colpa a carico del creditore convenuto, il quale dovrà dimostrare che l’evento non è a lui imputabile.
Nel caso di specie, la struttura sanitaria non ha fornito la c.d. prova liberatoria e pertanto è stata condannata a risarcire il danno causato.
Danni risarcibili: danno iure proprio e danno iure hereditatis
Brevi cenni finali merita anche la disciplina della quantificazione del danno risarcibile. Non entrando nel merito della valutazione operata dal Giudicante, si riportano alcune osservazioni sulla disciplina giuridica delle richieste avanzate dagli attori, eredi della paziente deceduta.
In primo luogo, occorre stabilire se, nel caso di morte della vittima, sia risarcibile il danno biologico da questa patito, trasmissibile agli eredi iure hereditario.  La Corte Costituzionale (C. Cost. n. 372/1994), a cui si è allineata la maggioritaria giurisprudenza di legittimità, ha negato tale possibilità, ma con una precisazione, rilevante nella situazione in oggetto. Infatti, la Consulta ha ritenuto che il danno biologico subito dalla vittima si può trasmettere iure hereditatis solamente se sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra il fatto illecito e il decesso. Nel caso de quo, detto requisito viene rispettato.
La giurisprudenza tende invece a negare il risarcimento del c.d. danno catastrofico. La Suprema Corte esclude infatti che sia risarcibile la sofferenza psichica e i patimenti vissuti dalla vittima nel momento in cui la stessa era consapevole della morte imminente.
Invece, per ciò che concerne i danni risarcibili iure proprio, dalla morte della vittima può derivare un danno biologico ai congiunti. Tale danno, c.d. edonistico, è direttamente risarcibile qualora si manifesti in un’alterazione dell’equilibrio mentale, medicalmente accertabile, conseguente all’evento morte.
Quindi, il Giudice nella quantificazione del quantum, terrà conto del ‘danno morale soggettivo’, cioè il dolore e le sofferenze patite direttamente dai congiunti per la morte del familiare, e del ‘danno biologico’ subito iure proprio da congiunti, consistente nella menomazione dell’integrità psico-fisica, che va comunque sempre accertata da un consulente.

dott. Matteo Morbin

 

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Matteo Morbin

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi Verona, tesi in diritto processuale penale dal titolo Iscrizione della notizia di reato nel registro ex art. 335 c.p.p. e principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Praticante avvocato. Frequenta la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, Università degli Studi di Trento e Verona.

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