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La Blue Whale Challenge e l’istigazione al suicidio

La Blue Whale è un sadico gioco in cui il fine ultimo è il suicidio della vittima. Se il gioco raggiunge il suo scopo, è pacifico che il carnefice sia perseguibile per istigazione al suicidio.
Che cosa succede invece se il gioco viene iniziato ma non concluso?
Nel caso di specie un uomo condannato dal Tribunale di Roma per avere istigato una minore al suicidio, con le modalità del gioco sopraccitato ma senza che il suicidio si consumasse, è ricorso in Cassazione per dedurre l’errata applicazione della legge penale in relazione alla configurabilità di tale reato.
Secondo l’art. 580 del c.p., «è punito con la reclusione da cinque a dodici anni chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima».
Nella vittima sono riscontrabili solo lesioni lievi, perciò secondo la sentenza n. 57503/2017 della Cassazione «limitatamente al punto contestato, il reato non sussiste.»
Alla luce della forte componente psicologica del reato in questione, confluendo nel reato di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. la maggior parte dei casi di agevolazione fisica a morire, è legittimo chiedersi se sia sensato porre un discrimine di antigiuridicità tra lesioni gravi e lesioni lievi.

Leggi il testo integrale – Corte di Cassazione, sentenza n. 57503/2017

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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