Sentenze

Tribunale di Verona, Sez. Lavoro – Sentenza n. 117/2015 del 27.07.2015 (Dott. Gesumunno)

Prestazione: indennità- rendita vitalizia INAIL

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Verona
Sezione Lavoro

nella persona del Giudice dott. Antonio Gesumunno, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa previdenziale promossa con ricorso depositato in data 1.6.2011

DA

C.C., comparsa in causa a mezzo dell’avv. M. E. del foro di Roma per mandato a margine del ricorso ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. S. M. in Pescantina (VR),

CONTRO

ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore per il Veneto, comparso in causa a mezzo dell’avv. D. C. giusta procura generale alle liti rep. n. 100865 Notaio C. di Venezia del 3.6.2010 ed elettivamente domiciliato presso l’ufficio di avvocatura dell’Istituto in Verona,

OGGETTO: mobbing – liquidazione rendita annua
UDIENZA DI DISCUSSIONE: 25.2.2015
CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE:

Nel merito, accogliere il presente ricorso, e, per l’effetto, dire e dichiarare la ricorrente affetta da malattia psichica e/o psico-somatica da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro denominabile “disturbo post-traumatico da stress” e/o “mobbing” (inquadrabile fra quelle di cui al D.M. 14 GENNAIO 2008);

dire e dichiarare l’origine professionale della suddetta malattia e, a far data dall’accertamento, il conseguente danno biologico subito dalla stessa patito, in una percentuale non inferiore al 19%, o in quell’altra che sarà accertata in corso di causa;
conseguentemente, condannare l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), alla liquidazione in favore della ricorrente di una rendita annua non inferiore ad € 2.600,00 (duemilaseicento/00) a titolo di risarcimento per il danno biologico patito, ovvero quell’altra che l’Adito Giudice riterrà provata in corso di causa, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo; in subordine, qualora venisse accertata una percentuale di danno biologico (compreso tra il 6% e il 15%) inferiore a quella di cui all’allegata perizia medico di parte, condannare l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), alla liquidazione in favore della ricorrente di un indennizzo in capitale corrispondente alla percentuale accertata (dunque compreso tra € 8.400,00 ed € 37.800,00), sulla base di ciò che sarà ritenuto provato, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio.

CONCLUSIONI DELL’INAIL:

Nel merito ed in via principale: rigettare il ricorso perché infondato. Nulla per le spese.

Motivi della decisione
Con ricorso ex art. 442 c.p.c. depositato in cancelleria il 01.06.2011 la ricorrente conveniva in giudizio l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) chiedendo che fosse accertato e dichiarato che la ricorrente era affetta da malattia psichica e/o psico-somatica da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro denominato “disturbo post-traumatico da stress” e/o “mobbing”, che venisse dichiarata l’origine professionale della suddetta malattia e il conseguente danno biologico da questa derivante in una percentuale non inferiore al 19 % o nella misura accertata in corso di causa e, conseguentemente, condannare INAIL a corrispondere alla ricorrente la rendita annua non inferiore a € 2.600,00 a titolo di risarcimento del danno biologico patito o nella diversa misura riconosciuta dal Giudice.
In subordine, la ricorrente chiedeva, nel caso fosse stata accertata una percentuale di danno biologico inferiore a quella questa in via principale e ricompresa tra il 6 e il 15 %, che l’INAIL fosse condannato a liquidare in favore della sig.ra C.C. un indennizzo in capitale corrispondente alla percentuale accertata ricompresa tra € 8.400,00 ed € 37.800,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo; con vittoria di spese.
Con memoria difensiva si costituiva tempestivamente INAIL contestando le avverse deduzioni e domande delle quali chiedeva il rigetto con vittoria di spese.
Alla prima udienza del 29.03.2012 il giudice ammetteva le prove testimoniali, rinviando per l’escussione dei testi all’udienza del 21.09.2012. In tale sede, data l’assenza del teste Bordignon, regolarmente citata da INAIl, il Giudice al termine dell’udienza rinviava al 30.05.2013 per sentire la teste non comparsa.

Dopo l’esame della sig. Bordignon, il Giudice si riservava in merito all’istanza di parte ricorrente di ammettere la Consulenza tecnico legale la quale veniva ammessa con ordinanza del 09.09.2013.
All’udienza del 15.10.2013 il Giudice nominava CTU il dott. Michele Schiavon, rinviando a successiva udienza per la prosecuzione e riserva di fissare udienza di discussione.

In data 03.07.2014 il Giudice rinviava per udienza di discussione al 25.02.2015, autorizzato il deposito di note difensive, all’esito della quale i procuratori concludevano come in atti. La causa veniva decisa mediante pubblica lettura del dispositivo.

***

Le domande di parte attrice sono infondate e, pertanto, devono essere rigettate.

Parte ricorrente, infatti, pur ricostruendo la carriera nel Consorzio di Bacino Verona 2 dall’inizio, individua un preciso momento temporale in cui la propria condizione lavorativa e la propria vita professionale avrebbero subito un importante cambiamento in pejus e cioè dal momento in cui la ricorrente venne trasferita dalla sede lavorativa Consorzio VR 2 da Peschiera del Garda a S. Ambrogio di Valpolicella nel 2003, sotto la direzione della sig. Elena Bordignon, con una punta apicale nel periodo tra ottobre 2005 e aprile 2006, momento in cui la ricorrente sarebbe stata esautorata dalle sue mansioni originarie, demansionata e mobbizzata.

In particolare, la ricorrente allega una serie di fatti che avrebbero determinato un clima sempre più “avversativo” che avrebbe determinato l’insorgere della malattia denominabile come “disturbo post-traumatico da stress” e/o “mobbing” individuandoli nella mancata risposta a richiesta di dialogo ( punto 8 del ricorso); aggressione verbale del 2003 (punto 9 del ricorso); dichiarazione del direttore secondo cui non avrebbe sopportato la ricorrente (punto 10 del ricorso); esclusione della ricorrente da informazioni utili ai fini dello svolgimento delle mansioni di segretario verbalizzante del consiglio di amministrazione (punto 11 del ricorso); modifica delle verbalizzazione durante le sedute del consiglio di amministrazione (punto 12 del ricorso); aspro rimprovero avvenuto in data 17.10.2005 (punto 13 del ricorso); demansionamento nel mese di novembre 2005 (punto 14 del ricorso); mancata concessione dei permessi per effettuare accertamenti medici (punto 15 del ricorso); imposizione da parte del direttore ad accettare giorni di ferie (punto 16 del ricorso); denegato inquadramento contrattuale (punto 17 del ricorso); errato computo dei giorni di malattia nell’anno 2012 (punto 18 del ricorso); mancato aiuto a seguito di malore sofferto sul posto di lavoro (punto 19 del ricorso); irrogazione di una sanzione disciplinare definita esclusivamente afflittiva (punto 20 del ricorso); denegata concessione di un periodo di aspettativa posto comporto (punto 23 del ricorso); denegato riconoscimento delle somme una tantum previste dall’CCNL (punto 24 del ricorso).

Il lavoratore ha l’onere di provare l’esistenza di condotte oggettivamente idonee (sia che siano legittime sia che siano illegittime) ad esautorare ovvero isolare il lavoratore nel luogo di lavoro e che siano finalizzate e collegate teleologicamente all’unico fine di arrecare un danno, ovvero indurre il dipendente alle dimissioni o al licenziamento.

Il mobbing, infatti, designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori protratti nel tempo posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obbiettivo primario di escludere la vittima del gruppo (cfr. fra tutte Corte Cost. n. 359/2003) e, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ricorrere molteplici elementi:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da pare di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima;

c) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cass. 21.5.2011, n. 12048; Cass. civ., 23.3.2010, n. 7382).

Il mobbing consiste, pertanto, in una situazione di disagio fisio-psichico provocata al lavoratore da ripetuti soprusi posti volontariamente e consapevolmente in essere da colleghi e/o superiori al fine di determinare l’isolamento e l’emarginazione, professionale ed “umano”, dello stesso all’interno del contesto lavorativo – che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 359/2003, ha definito tale fattispecie “come complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte – commissive od omissive – che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico potendo tuttavia acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e, talvolta, dalla scopo di persecuzione e di emarginazione”.

La giurisprudenza ha prevalentemente ricondotto le concrete fattispecie di mobbing alla previsione dell’art. 2087 c.c. e, in particolare, al precetto secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure … necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ai fini della sussistenza di tale fattispecie sono pertanto necessari due elementi: l’intenzionalità e la consapevolezza e la reiterazione e la sistematicità delle condotte finalizzate all’isolamento e all’emarginazione del lavoratore, attuate spesso attraverso atti di demansionamento, di inattività forzata e di privazione dei necessari strumenti di lavoro (v. circolare INAIL 17712/2003).

Nel caso di asserita violazione del precetto contenuto nell’art. 2087 c.c. è poi onere del lavoratore (che lamenti un danno alla salute seguito alla asserita violazione da parte del datore di lavoro) provare il dolo o almeno la colpa di quest’ultimo nella mancata adozione di tale misure, l’esistenza di un evento dannoso – e cioè la sussistenza di un danno e/o malattia di natura psico-fisico – e il nesso causale tra l’uno e l’altro elemento (v. Cass. nn. 1844/1992; 11120/1995).

Le norme che regolano il mobbing sono integrate da una serie di leggi che hanno incrementato la possibilità di prova della fattispecie, avvalendosi anche delle prove presuntive.

In particolare, per quanto riguarda i comportamenti di radice discriminatoria, i D.Lgs 215/2003 e D.Lgs 216/2003 (che individuano alcuni fattori di discriminazione quali orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età, razza, origine etnica) hanno specificato che vi è un’inversione dell’onere della prova quando la vittima fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (riproducendo così la analoga disposizione contenuta nella L. 125 / 1991 in materia di discriminazioni di genere).

Tale principio della prova anche solo presuntiva, a favore del lavoratore, era comunque già presente nell’ordinamento.

Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) – che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri – consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c. Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della Corte di Cassazione in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274). Nonostante, dunque, l’onere della prova, in specifici casi, “attenuato” che investe la lavoratrice, nel caso di specie parte ricorrente non ha provato, in maniera sufficientemente specifica e attendibile, come previsto ex art. 2697 c.c. non ha provato la sussistenza di comportamenti ritorsivi e reiterati nel tempo con intento doloso o colposo da parte del datore di lavoro di pregiudicare la ricorrente.

In merito ai fatti allegati dalla ricorrente a fondamento delle domande di accertamento e risarcitorie formulate, è stata svolta ampia e approfondita istruttoria dalla quale non è emerso un riscontro tra quanto sostenuto dalla ricorrente e le circostanze necessarie per integrare la fattispecie del mobbing lavorativo.

Unica deposizione testimoniale che ha riferito di situazioni sul posto di lavoro caratterizzate da “tensione” interpersonale è stata quella del sig. F. C. il quale ha riferito che “(…) A seguito della nomina del direttore per quanto io potuto vedere la Bordignon ha cambiato atteggiamento nei confronti dei colleghi nel senso che lei si comportava come superiore mentre prima aveva un normale rapporto di colleganza. In particolare la Bordignon aveva atteggiamenti arroganti e maleducati, per esempio non salutava i colleghi anche passandogli davanti. La Bordignon aveva un atteggiamento di insofferenza nei confronti della ricorrente quando quest’ultima chiedeva al direttore indicazioni o direttive sui lavori da fare. Questo atteggiamento riguardava in particolare la ricorrente visto il suo ruolo di segretaria, che si occupava un po’ di tutti gli aspetti del consorzio. Io vedevo che la ricorrente veniva trattata con modi bruschi dal direttore. La Bordignon era solita togliere mansioni darla da altri e poi anche cambiare idea sulle decisioni prese. (…) Questa cosa appesantiva il lavoro perché la ricorrente doveva spiegare il lavoro da fare alla collega, senza che però vi fossero dei risultati utili perché la signora Tezza fu assegnata ad altro incarico nel senso che il direttore dava di volta in volta incarichi che riteneva opportuni. (…) Ricordo che una volta la Bordignon mi chiamò in ufficio e mi disse che non ne poteva più della ricorrente perché veniva a chiederle delle cose che a mio parere entravano nelle competenze del direttore. Lei mi disse che da quel momento l’avrei dovuta gestire io. Io dissi che per me andava bene ma che avrei dovuto avere una piena disponibilità per quanto riguarda i compiti da assegnare alla ricorrente. Il direttore disse che poteva andare bene a condizione che venissero rispettate le priorità da lei stabilite. (…)”.

Tali circostanze non sono univocamente sintomatiche di pratiche mobbizzanti o discriminatorie.

L’atteggiamento assunto dalla signora Bordignon dopo la sua nomina a direttore, a detta dello stesso testimone, non era indirizzato unicamente nei confronti della ricorrente ma verso tutti i collaboratori.

L’unico fatto rilevante nei rapporti con la ricorrente è questo atteggiamento di “insofferenza” manifestato dal Direttore al signor Campedelli, al quale la Bordignon chiese di seguire direttamente e personalmente la ricorrente. A prescindere dalla “insofferenza” nei confronti delle richieste della ricorrente, non appare del tutto incongrua la richiesta del direttore Bordignon di delegare la gestione dei rapporti con la ricorrente, che svolgeva le funzioni di segretaria, al responsabile dell’amministrazione e della segreteria, rientrando tale disposizione nei suoi poteri di gestione.

I fatti riportati non sono sufficienti a integrare la fattispecie del mobbing inteso come una serie di comportamenti vessatori volutamente di carattere posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo al fine di escludere la lavoratrice dal gruppo.

Gli altri testi chiamati a hanno, inoltre, descritto circostanze differenti da quelle allegate dalla ricorrente.

Con riferimento all’episodio di malessere avuto il 14 aprile 2006, la teste dottor Z. L., medico di medicina generale, riferisce che “la ricorrente riferì di aver avuto, sul posto di lavoro, un forte colpo di tosse e di aver sentito un forte dolore al fianco tale da non consentire di stare in piedi.
Lei diceva che non era stata soccorsa da nessuno e che le avevano solo prestato una scrivania per potersi sdraiare”.

Da un confronto con la successiva deposizione della teste Bordignon, in mancanza di altri testimoni che hanno assistito al fatto, emerge che nessuno sul posto di lavoro si era reso conto delle condizioni di salute particolarmente serie della ricorrente che si era poi allontanata autonomamente.

Inoltre non vi è prova che il malore fosse conseguenza comportamento persecutorio o rimproverabile del datore di lavoro, che solo successivamente è stato informato della situazione.
Devono, inoltre, essere disattesi anche tutti i fatti allegati nel ricorso e non provati con documenti o durante la fase istruttoria. In particolare si osserva:
– asserita mancata risposta a richiesta di dialogo (punto 8 del ricorso)

I documenti (docc. 8, 9, 10, 11) che giustificherebbero le mancata risposta ad una richiesta di dialogo inoltrata dalla ricorrente risultano, ad una loro lettura, privi di tale richiesta. Le prime due e-mail firmate dalla ricorrente, contengono osservazioni e lamentele della ricorrente, la cui fondatezza non risulta né allegata né provata nel ricorso. Le lamentele, inoltre, on riguardano nemmeno condizioni della ricorrente, ma fanno riferimento a problemi di altri colleghi. Il documento numero 9, in particolare risulta quale una generica richiesta di intervento al fine di predisporre un gruppo di continuità per il sistema di allarme del consorzio. Tali indicazioni non integrano per se stesse una richiesta di incontro con la direttrice né una necessità di interloquire con questa per l’eventuale risoluzione delle problematiche indicate. I documenti 10 e 11 appaiono, invece, come una mera raccolta di appunti con annotazioni scritte a penna di cui non è certa la paternità e che comunque non hanno alcuna rilevanza ai fini di una mancata risposta ad una richiesta di dialogo, mancando, anche qui, la richiesta medesima.

Nel documento prodotto a supporto della pretesa aggressione verbale si rileva, innanzi tutto che la mail è stata scritta dalla ricorrente e, dunque, eventualmente riporta un suo punto di vista dell’accaduto. In secondo luogo, anche tale documento, al pari dei doc. 8 – 11 sopra visti, presenta generiche lamentele sul modo di lavoro e sulle mancate riunioni ritenute dalla ricorrente come necessarie e non predisposte da un programma aziendale o da esigenze della direzione. Infine nessuna aggressione verbale emerge nel testo riportato riscontrandosi, invece, un atteggiamento della ricorrente come sospettoso e diffidente nei confronti dei colleghi e del direttore, senza alcun riscontro oggettivo. Tutte le contestazioni risultano, dunque, come frutto di sensazioni personali.

– dichiarazione del direttore secondo cui non avrebbe sopportato la ricorrente (punto 10 del ricorso)

Infatti, l’unico riferimento in tal senso potrebbe risultare da quanto dichiarato dal sig. F. C. il quale ha però riferito che la direttrice gli avrebbe detto che “(…) da quel momento l’avrei dovuta gestire io”; fatto che non risulta difforme alla gestione del ruolo e di personali all’interno dell’azienda trattandosi il teste del responsabile amministrativo e di segreteria e, dunque, responsabile della ricorrente.

– invocata esclusione da informazioni utili ai fini dello svolgimento delle mansioni di segretario verbalizzante del consiglio di amministrazione (punto 11 del ricorso)

Tale allegazione risulta generica e non supportata da elementi probatori di natura documentale o confermata dai testi chiamati a deporre. In particolare, il teste F. C., ha dichiarato di essersi occupato anche lui delle verbalizzazioni nel periodo dal 2001 al 2004 e, dunque, anche nel mentre (a partire dall’anno 2003) in cui la ricorrente lamenta le asserite esclusioni da informazioni che le avrebbero dovuto essere riferite in qualità di segretaria verbalizzante. Il teste non ha potuto, inoltre, confermare ma solo presumere che il direttore abbia chiesto alla ricorrente di non riportare ne verbale alcune osservazioni, dato che tale richiesta era stata fatta anche a lui. Il teste ha, pretesa aggressione verbale nel 2003 (punto 9 del ricorso):

infatti, dichiarato che “presumo che la stessa cosa sia stata fatta anche con la ricorrente visto il comportamento normalmente tenuto dal Direttore, anche se non posso sapere con certezza”.

– contestazione da parte della ricorrente di due occasioni di presunta modifica delle verbalizzazione durante le sedute del consiglio di amministrazione (punto 12 del ricorso)

Anche per tale addebito appare del tutto generico, mancando ogni indicazioni in riferito alla modifica apportata (nella forma, nel contenuto o altro). Non viene, inoltre, allegato alcun documento a comprova delle “constatazioni personali” svolte dalla ricorrente. Manca, inoltre, la prova dell’efficacia lesiva di tale evento e della sua rilevanza alla fine di delineare una responsabilità datoriale a titolo di mobbing. Non sussiste, infine, alcun l’elemento a sostegno della reiterazione e della ripetizione, che devono sussistere al fine di integrare la fattispecie del mobbing.

– è asserito aspro rimprovero avvenuto in data 17.10.2005 (punto 13 del ricorso)

Il fatto è stato allegato in maniera non circostanziata e risulta privo di una prova documentale a supporto. In particolare, non viene specificato cosa sarebbe stato rimproverato dalla ricorrente, quali sarebbero gli altri dipendenti che vi avrebbero assistito. Tale circostanza non risulta confermata in sede testimoniale dato che nessuno dei testi chiamati ha riferito tale evento. In particolare, la teste B. all’udienza del 30.05.2013 ha categoricamente negato di aver mai rimproverato la ricorrente: né aspramente né in presenza di altri dipendenti. Anche tale fatto risulta, per come allegato, comunque singolo ed isolato e, pertanto, privo delle caratteristiche della reiterazione e della ripetizione tipici della condotta di mobbing.

La ricorrente lamenta di essere stata demansionata nel novembre 2005 essendogli stata sottratta la funzione di segretario verbalizzante del Consiglio di Amministrazione del Consorzio VR 2.

La attribuzione ad altro soggetto di tali mansioni, in mancanza di prova di un intento vessatorio e di emarginazione della lavoratrice, non può essere qualificata come condotta sintomatica del lamentato mobbing.

– preteso demansionamento nel mese di novembre 2005 (punto 14 del ricorso)

Non si può parlare di demasionamento (non venendo allegato e provato lo svolgimento di mansioni inferiori da parte della ricorrente) ma, semmai, una riassegnazione di una parte degli incarichi, rimanendo, infatti, invariata la sua attività di segretaria, così come indicato nell’organigramma allegato doc. 5 di parte ricorrente.

Tale sottrazione di incarico non risulta, però, ingiustificata, venendo assegnata come da delibera allegata al doc. 12 di parte ricorrente al sig. Thomas Pandiani dipendente del consorzio con qualità di legale-amministrativo. Tale scelta risultava motivata al fine di una migliore organizzazione del personale dipendente quale facoltà riconosciuta al datore di lavoro nell’espletamento del suo potere dirigenziale e di autonomia gestionale.

La teste B. ha affermato che la ricorrente svolgeva mansioni di segreteria occupandosi della “convocazione delle assemblee del C.d.A., comunicazioni relative a gare di appalto, invio raccomandate, adibizione al centralino con eventuale smistamento delle chiamate” all’interno dell’area dell’organizzazione del Consorzio, denominata Area segreteria, la cui responsabilità era attribuita al sig. F. C.. Il medesimo teste F.C., ha dichiarato all’udienza del 21.09.2012, di essersi occupato anche lui delle verbalizzazioni nel periodo dal 2001 al 2004. Tale incarico, pertanto, non aveva una connotazione esclusiva, ma poteva essere svolto anche da altro personale. Infine, la teste B. ha precisato che normalmente “la ricorrente prendeva nota delle presenze e delle varie dichiarazioni dei componenti, mentre le delibere venivano scritte a mano da un avvocato, consulente esterno, che presenziava alle riunioni e poi venivano successivamente riportate in forma grafica su computer dalla ricorrente”. Nell’autonomia gestionale riconosciuta al datore di lavoro, alla ricorrente sarebbe stata sottratto un compito di mera documentazione di attività del CDA, che non avrebbe compromesso al sua professionalità in maniera tale da determinare un demansionamento, rimanendo integra la suo attività di segretaria, così come da organigramma indicato al doc. 5 di parte ricorrente. Inoltre, nessuna modifica è stata apportata al trattamento economico della ricorrente, che è rimasto invariato anche dopo il mese di novembre 2005 (data dell’asserito demansionamento) e venendo, anzi, aumentato così come previsto da CCNL di settore applicato (doc. da n. 1 a 7 parte ricorrente).

La scelta del datore di lavoro di affidare l’incarico di verbalizzazione, sia delle presenze che delle delibere, al dott. P., risultava motivata da precise esigenze poiché “a seguito dell’aumento degli affari generali si era venuta a creare l’esigenza di avere una figura interna che si occupasse di tutti gli aspetti relativi alla gestione e redazione dei contratti motivo per il quale il Consorzio ha proceduto all’assunzione del sig. P. cui era stata assegnato anche il compito di verbalizzare le riunioni del C.di A.” (teste B.).
Pertanto, la scelta di affidare ad una sola persona, dott. P., l’attività di verbalizzazione non ha comportato alcun demansionamento per la sig.ra C.C., né alcuna sottrazione ingiustificata di incarichi, essendo stata esercitato il potere datoriale in maniera legittima essendo finalizzato ad una migliore, congrua e razionale organizzazione di lavoro. Tale scelta, inoltre, ha fatto sì che alla ricorrente non venisse chiesto di fermarsi in orari per lei scomodi dato che la lavoratrice medesima aveva affermato, come dichiarato dalla teste B., che le sarebbe stato “difficile e pesante fermarsi negli orari delle riunioni del C. di A. che si svolgevano tra le 18 e le 20”. Conseguentemente, non sussistono elementi sufficienti per affermare la sussistenza del demansionamento, né per riconoscere un comportamento datoriale ascrivibile come mobbing nei riguardi della ricorrente.
– presunta mancata concessione dei permessi per effettuare accertamenti medici (punto 15 del ricorso)

Tale circostanza non risulta provata in sede testimoniale né supportata da elementi documentali.

Il doc. 13 indicato nel ricorso, infatti, si riferisce ad una richiesta ferie e non ad un permesso per effettuare accertamenti medici. Tale richiesta, inoltre, non risulta sottoscritta dalla ricorrente e nemmeno le scritte apposte in calce ne individuano la paternità non riportando alcun nome o firma.

La teste B. all’udienza del 30.05.2013 ha categoricamente escluso di aver negato alla ricorrente permessi o ferie per sottoporsi ad accertamenti clinici dichiarando: “escludo di aver mai negato alla ricorrente permessi o ferie per accertamenti clinici”. Inoltre nel prendere visione del docc. 13 e 14 la teste continuava affermando che “si tratta di moduli utilizzati per la richiesta ferie. Il primo documento non è mai stato firmato e quindi non mi è mai stato sottoposto (…)”. Nessun altro teste ha riferito in merito alla circostanza.

– pretesa imposizione da parte del direttore ad accettare giorni di ferie (punto 16 del ricorso)

Anche in merito a tale addebito, la teste B. ha escluso di aver imposto alla ricorrente di fruire di giorni di ferie in luogo di permessi o di aver imposto l’accettazione di giorni di ferie sulla base della motivazione che durante l’anno aveva fatto numerosi giorni di malattia. In merito ad doc. 14, la teste B. ha affermato, inoltre, che il referente incaricato della gestione del personale, sig. G. S., può aver suggerito alla ricorrente di prendere giorni di ferie al fine di consumarli entro il termine previsto dal contratto collettivo. Nessun altro teste ha riferito in merito alla circostanza.

Manca, anche in questo caso una condotta persecutoria e ritorsiva reiterata nel tempo.

Si precisa, infatti, che gli eventi indicati ai punti 15 e 16 del ricorso, anche nel caso in cui avessero trovato riscontro nell’attività istruttoria, risultano comunque sporadici e isolati nel tempo dato che il primo si riferisce al novembre 2005, mentre il secondo al dicembre 2006.

– asserito denegato inquadramento contrattuale (punto 17 del ricorso)

Ai sensi della declaratoria di Area operativa – funzionale indicata nell’art. 15 del CCNL Federambiente in data 23.05.2003, Area Tecnica e Amministrativa, in quest’ambito vi appartiene il personale che con specifica collaborazione svolge attività amministrative o tecniche inerenti al processo organizzativo dell’impresa, caratterizzate da adeguata autonomia operativa nei limiti dei principi, norme e procedure valevoli per i campi in cui opera. L’area prevede sette livelli professionali e dodici posizioni parametrali.

In forza di tali indicazioni, la ricorrente risulta inquadrata in posizione parametrica B, IV livello essendo le sue mansioni quelle indicate nell’organigramma allegato quale doc. 5 di parte ricorrente:

– Reception e centralino;
– Protocollo posta in entrata e in uscita;
– Archiviazione documenti;
– Gestione appuntamenti – agenda personale del Consorzio;
– Convocazione C.di A. e Assemblea;
– Segretario verbalizzante del Consiglio di Amministrazione;
– Registrazione dei verbali del C.di A. e Assemblea;
– Gestione del registro delibere del C.di A. e Assemblea;
– Affiancamento al settore amministrativo per emissione o registrazione fatture;
– Affiancamento al consulente legale avv. Bay;
– Affiancamento al settore tecnivco nella compilazione ed elaborazione
dei dati di produzione rifiuti;
– Responsabile acquisti cancelleria;
– Rassegna stampa interna;
– Responsabile squadra pronto soccorso.

Tali mansioni possono essere fondamentalmente ricondotte a compiti di collaborazione che sono di natura essenzialmente esecutiva ovvero, in base al CCNL richiamato “Lavoratori d’ordine che, con specifica collaborazione, svolgono attività esecutive di carattere tecnico o amministrativo di particolare rilievo rispetto al livello inferiore, richiedenti una professionalità adeguata per l’applicazione di procedure e metodi operativi prestabiliti nonché specifiche conoscenze teorico-pratiche, anche acquisite mediante addestramento o esperienze equivalenti, con autonomia operativa connessa ad istruzioni generali non necessariamente dettagliate”.

La ricorrente chiedeva, invece, un riconoscimento al superiore livello V senza, tuttavia, espletare mansioni o attività che rientrassero in tale categoria. Infatti, per il CCNL Federambiente, lavoratori rientranti nel V livello sono “Lavoratori di concetto che svolgono attività di elevato contenuto professionale tecniche/amministrative. In possesso di conoscenze teoriche derivanti da istruzione di grado superiore o conseguite con approfondita esperienza e formazione, nonché di capacità pratiche di elevata specializzazione professionale relative a tecniche, tecnologie e processi operativi, operano con autonomia nell’esecuzione delle attività assegnate e con discrezionalità definita nell’adattamento delle procedure e dei processi relativi alla propria attività. Operano individualmente o in concorso con altri lavoratori dei quali possono avere il coordinamento”.

Appartengono, pertanto, al V livello coloro che svolgono mansioni di responsabilità e autonomia determinate dall’alta professionalità tecnica-amministrativa che connota la loro attività e dal necessario alto grado di istruzione e di esperienza formativa conseguito. Diversamente, la ricorrente ha svolto mansioni di tipo meramente esecutivo e di collaborazione, non di concetto o decisionali come richieste dal V livello del CCNL di settore.

Inoltre, la teste B. all’udienza del 30.05.2013 ha dichiarato che la richiesta della ricorrente è stata respinta poiché questa “aspirava a occuparsi della parte contrattualistica ed appalti (…) sia io che il C. di A, ritenevamo che la ricorrente non avesse l’esperienza e la formazione adeguata per occuparsi di questo settore che richiedeva conoscenze specifiche”.

Conseguentemente, la domanda di riconoscimento di ottenere un inquadramento superiore non trova fondamento, non venendo di fatto svolte dalla sig.ra C.C. attività proprie del livelle richiesto.
Tale domanda risulta, inoltre, in contrasto con quanto indicato al punto 14 del ricorso ovvero dell’asserito demansionamento. Infatti, o la ricorrente si è trovata a svolgere mansioni di livello superiore oppure è stata limitata a svolgere attività inferiori a quelle della sua categoria.

– errato computo dei giorni di malattia nell’anno 2012 (punto 18 del ricorso) Tale evento si riferisce ad un episodio del 2002 e per il quale la ricorrente medesima riconosce un errore del datore di lavoro nel segnare le ferie “a suo svantaggio”. Tale errore, per consultazione dei docc. 18 e 19 allegati, consiste in un numero maggiore di giorni di malattia indicati (31 giorni) a fronte di quelli effettuati (18 giorni). A seguito di tale errore non è derivato alcun pregiudizio alla lavoratrice. Inoltre, essendo riconosciuto dalla medesima ricorrente il fatto come frutto di un errore, è difficile ravvisare alla base di esso un intento persecutorio

– asserito mancato aiuto a seguito di malore sofferto sul posto di lavoro (punto 19 del ricorso)

In questo caso manca il nesso di causalità tra comportamento vessatorio tra il datore di lavoro e la mancata assistenza alla ricorrente. Infatti a seguito di un valore assolutamente improvviso succeduto ad un forte colpo di tosse, dovuto a cause estranee al rapporto di lavoro, sul posto di lavoro è stata offerta la possibilità di sdraiarsi (teste Z.) e comunque la stessa si è autonomamente allontanata dal luogo di lavoro senza farvi più rientro e senza dare notizie di sé (teste B.).

– irrogazione di una sanzione disciplinare definita esclusivamente afflittiva (punto 20 del ricorso)

Anche tale circostanza non è giuridicamente rilevante in termini di mobbing, in quanto si tratta di un caso isolato e non ripetuto con frequenza dalla giurisprudenza. Inoltre, la sanzione di € 9,00 (docc. 24 e 25 ricorrente) comminata alla ricorrente, irrogata subito dopo le giustificazioni presentate all’INPS dalla lavoratrice, proprio per l’esiguità dell’importo non appare di natura afflittiva.

– denegata concessione di un periodo di aspettativa post comporto (punto 23 del ricorso) e delegato riconoscimento delle somme una tantum previste dall’CCNL (punto 24 del ricorso).

In merito a tali contestazioni si rileva che anche tali addebiti non rilevano sotto il profilo del mobbing in quanto si trattano di questioni attinenti alla mera regolazione del rapporto economico fra le parti e tali, dunque, da non rientrare nelle condotte tipiche del mobbing, così come individuate dalla giurisprudenza di merito e legittimità.

***

In merito alla perizia espletata dal dott. M. S., il CTU ha riconosciuto un nesso di causalità sussistente tra la patologia della ricorrente e i fatti subiti in ambito lavorativo, ove ritenuti accertati in causa, diagnosticando un disturbo distimico sofferto dalla ricorrente di entità lieve – moderata.

Il CTU, però, nella propria anamnesi (pag. 8 della sua perizia) indica che la ricorrente, già a partire dall’anno 2003, ha cominciato a soffrire dei primi sintomi di malessere psicofisico. Vengono, inoltre, riconosciute patologie mediche rilevanti sofferte dalla ricorrente antecedentemente al disturbo distimico diagnosticato (pag. 13 perizia). Patologie, quest’ultime, degne di nota per lo stesso medico “per la loro valenza frustrativa e stressogena” (pag. 13 perizia). Il CTU prosegue affermando che “questi rilievi non indicano certamente, ipso facto, una certezza causale unica e alternativa, ma aprono motivatamente la discussione, ardua, circa la concausalità o la “causalità circolare” che caratterizza il manifestarsi della maggior parte dei disturbi psichiatrici. Poiché l’esordio della sintomatologia psichiatrica (criterio cronologico) coincide con l’acutizzarsi dei problemi in ambito lavorativo, è ragionevole attribuire a questi la principale responsabilità. Ma, come esaminato (…) è altrettanto ragionevole qualificare gli stessi come concausa principale, non esclusiva” (pag. 13 perizia).

Il CTU, pertanto, pur ravvisando un nesso causale tra la sintomatologia della ricorrente e i comportamenti da lei riferiti come stressogeni in ambiente lavorativo, riconosce una concorsualità e concausalità di eventi che hanno portato all’insorgere della patologia medesima.

Le valutazioni del CTU non possono, però, essere valutate in maniera completa senza il necessario raffronto dei documenti e delle prove testimoniali espletate.

Infatti, dall’analisi di tali elementi risulta accertato che i fatti allegati dalla ricorrente non possono essere definiti come “dequalificanti”, vessatori o ritorsi per se stessi, ma che in tal senso sono solo stati percepiti dalla ricorrente.

Si deve, pertanto, ritenere che la concorsualità dei fattori che hanno determinato la patologia sia, in realtà, un fattore autonome precedente o concomitante a quello lavorativo. In particolare non risulta provata la vessatorietà delle condotte illecite o lecite nei confronti della ricorrente al fine di isolarla dal gruppo di lavoro né la reiterazione delle medesime. Conseguentemente, le conclusioni a cui è giunto il CTU devono essere interpretate tenendo in particolar conto la concorsualità degli eventi, dallo stesso riconosciute, che possono aver condotto al ricorrente a soffrire di tale patologia. Infatti, se le condotte non rientrano tra quelle proprie del mobbing, non può sussistente nemmeno il nesso causale tra queste e la patologia lamentata.

Da quanto esposto, si ritiene che sulla base delle precisazioni sopra svolte e volendo dare applicazione ai principi indicati, non possa che giungersi alla conclusione che i comportamenti allegati in ricorso non valgano ad integrare la fattispecie denunciata.

Infatti, non appare dimostrata una condotta mobbizzante a danno della ricorrente visto che la stessa, oltre a non dedurre la sussistenza di un danno biologico di natura, non deduce e non prova la sussistenza di una condotta vessatoria da parte della resistente tesa a perseguire e a emarginare la lavoratrice dall’ambiente di lavoro.
Per tutte tali ragioni, il ricorso deve essere respinto.

La diversa posizione delle parti e la materia trattata, fa ritenere equa una totale compensazione delle spese di lite tra le parti. Per i medesimi motivi le spese della consulenza tecnica d’ufficio, già separatamente liquidate devono essere poste a carico di entrambe le parti in quote uguali.

P.Q.M.

Il Tribunale di Verona in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda ed eccezione rigettata
1) rigetta il ricorso;
2) spese di lite compensate;
3) pone a carico delle parti nella misura di metà ciascuna le spese della consulenza tecnica d’ufficio liquidate come da separato provvedimento;
4) fissa termine di gg. 60 per il deposito della sentenza.
Verona, 25.2.2015

IL GIUDICE

dott. Antonio Gesumunno

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