Sentenze

T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 01-07-2015, n. 8778

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO

Sezione Prima

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale n. 762/15, proposto dal Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Allorio, Sandro Amorosino, Paolo Berruti, Giuseppe Colavitti, Guido Greco, Roberto Mastroianni, Giuseppe Morbidelli, Bruno Nascimbene e Mario Sanino, e con questi elettivamente domiciliato in Roma, viale Parioli, n. 180, presso lo studio dell’avv. Sanino,

contro

l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è per legge domiciliata, nonché

nei confronti di

N. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio, e con

e con l’intervento di

ad adiuvandum:

Cassa Nazionale di previdenza ed assistenza forense, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Marcello Bella e con questi elettivamente domiciliata presso i propri uffici legali in Roma, via Ennio Quirino Visconti, n. 8,

per l’annullamento

del provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) il 22 ottobre 2014.

Visti il ricorso ed i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm);

Visto l’atto di intervento ad adiuvandum della Cassa Nazionale di previdenza ed assistenza forense, depositato il 28 febbraio 2015;

Viste le memorie prodotte dalle parti in causa costituite a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del 17 giugno 2015 il Consigliere Giulia Ferrari; uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Svolgimento del processo

1. Con ricorso notificato in data 10 gennaio 2015 e depositato il successivo 16 gennaio il Consiglio Nazionale Forense (Cnf) ha impugnato il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) il 22 ottobre 2014.

Espone, in fatto, che in data 19 novembre 2012 l’Agcm gli ha inviato una richiesta di informazioni concernenti “il nuovo tariffario forense” e la circolare n. 22 – C/2006, pubblicati sul sito web del Cnf e nella banca dati gestita dall’Ipsoa, raggiungibile dalla homepage del sito web Cnf attraverso un link denominato “Tariffe”. Con nota del 27 dicembre 2012 il Cnf ha comunicato l’avvenuta rimozione del link e la loro collocazione nella sezione relativa alla “Storia dell’avvocatura”, precisando che la circolare era stata già rimossa dal sito in occasione della pubblicazione della circolare n. 23/2007 di rettifica della precedente. In effetti la circolare del 2006 era già stata oggetto di specifica considerazione negli atti dell’indagine conoscitiva IC-34 riguardante il settore degli ordini professionali. In detta indagine l’Agcm aveva dato atto della revoca della circolare e della sua rimozione dal sito web. Il Cnf non è invece responsabile per la presenza di detta circolare nella banca dati dell’Ipsoa, gestita dalla società W.K.I. s.r.l..

Con comunicazione del 28 maggio 2013 la società N. s.r.l., titolare del circuito “Amica Card”, ha segnalato all’Agcm l’adozione, da parte del Cnf, in data 11 luglio 2012, del parere n. 48/2012, con il quale, su richiesta del Consiglio dell’Ordine di Verbania, ha fornito l’interpretazione dell’art. 19 del Codice deontologico forense, relativo all’accaparramento della clientela, in relazione all’offerta, da parte di un avvocato, di prestazioni professionali mediante la piattaforma “Amica Card”.

Con delibera del 16 luglio 2013 l’Autorità ha aperto nei confronti del ricorrente un procedimento istruttorio (I-748), ai sensi dell’art. 14, L. 10 ottobre 1990, n. 287. In data 21 maggio 2014, dopo l’audizione dei rappresentanti del Cnf tenutasi il precedente 10 ottobre 2013, l’Autorità ha trasmesso al ricorrente le risultanze istruttorie, affermando che la circolare del 2006 e la sua pubblicazione sul sito istituzionale del Cnf insieme al tariffario forense di cui al D.M. n. 127 del 2004 costituirebbero la decisione di un’associazione di imprese restrittiva della concorrenza in quanto reintrodurrebbero nei fatti l’obbligatorietà delle tariffe minime per le prestazioni professionali degli avvocati, abolita dal legislatore. Nell’audizione finale del 9 luglio 2014 il Cnf ha confermato le precisazioni già effettuate.

Con l’impugnato provvedimento del 22 ottobre 2014 l’Agcm ha inflitto al Cnf la sanzione di Euro 912.536,40 per asserita violazione dell’art. 101 Tfue, consistente in un’intesa restrittiva della concorrenza dovuta all’adozione di due decisioni volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, invitando il Cnf anche a porre termine all’infrazione dandone adeguata comunicazione agli iscritti, ad astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata e a comunicare, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione delle misure richieste.

2. Avverso i predetti provvedimenti il ricorrente è insorto deducendo:

A) Sul potere dell’Agcm di valutare gli atti del Consiglio Nazionale Forense.

a) Violazione art. 6 Cedu e art. 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione agli artt. 1, 2, 6, 7, 8, 10, 14 ss., D.P.R. n. 217 del 1998 (recante, regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Agcm), per violazione del principio di imparzialità e della par condicio procedimentale – Violazione del giusto procedimento amministrativo sanzionatorio.

La sanzione inflitta al Cnf, vista sotto la lente della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ha natura sostanzialmente penale, con la conseguente necessità che ci sia separazione tra organo inquirente ed organo giudicante. Nella specie tale separazione manca. E’ quindi illegittimo, in parte qua, il regolamento procedure dell’Agcm, per contrasto con gli artt. 6 Cedu e 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali.

b) Violazione art. 21 bis, l. n. 287 del 1990 – Violazione del principio di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni – Sviamento della procedura – Violazione art. 97 Cost. – Motivazione assertoria e insufficiente.

Ove pure si potesse intravedere nell’attività posta in essere dal Cnf con la circolare del 2006 ed il parere n. 48 del 2012 una o più intese restrittive della concorrenza, lo strumento previsto nel nostro ordinamento per tali vicende è diverso ed è disciplinato dall’art. 21 bis, L. n. 287 del 1990, che detta una speciale procedura che culmina, ove l’Amministrazione non si sia conformata entro sessanta giorni dalla comunicazione del parere dell’Autorità, in un ricorso proposto da quest’ultima tramite l’Avvocatura generale dello Stato. Il Cnf è un ente pubblico non economico e dunque rientra nell’ambito di applicazione del citato art. 21 bis. Dalla natura di ente pubblico del Consiglio Nazionale Forense deriva che la circolare del 2006 e il parere da esso reso nel 2012 sono ascrivibili alla categoria degli “atti amministrativi”.

c) Violazione art. 97 Cost. e art. 3, l. n. 241 del 1990 – Eccesso di potere per contraddittorietà estrinseca – Violazione art. 24 Direttiva 2006/123 – Violazione art. 8, comma 2, l. n. 287 del 1990 – Violazione art. 101 Tfue – Eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà, illogicità, carenza di motivazione.

Illegittimamente la disciplina antitrust è stata applicata ad una attività che è manifestazione di poteri assegnati dalla legge al Cnf, nel perseguimento di interessi generali. Sia la circolare del 2006 che il parere del 2012 sono stati emessi nel quadro delle competenze in materia deontologica e disciplinare, nonché dei compiti di indirizzo, coordinamento e collaborazione con i Consigli dell’ordine circondariale per la “tutela dell’indipendenza e del decoro”.

B) Violazione e falsa applicazione art. 101 Tfue.

d) Violazione e falsa applicazione art. 101 Tfue, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea – Violazione artt. 3, 10 e 35, l. n. 247 del 2012 – Carenza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.

Il provvedimento impugnato è illegittimo per errata applicazione del divieto di intese restrittive di cui all’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. E ciò per: 1) inesatta interpretazione della portata e del contenuto della circolare 22-C/2006 e del parere n 48/2012; 2) errata qualificazione dei comportamenti ascritti al Cnf come restrizioni della concorrenza “per oggetto”; 3) carenza di motivazione in ordine agli effetti restrittivi della concorrenza prodotti dalle condotte cointestate; 4) carenza di motivazione in ordine all’idoneità dei comportamenti del Cnf a perseguire obiettivi d’interesse pubblico.

C) Sulla circolare 4 settembre 2006, n. 22-C/2006.

e) Violazione e falsa applicazione l. n. 248 del 2006 – Violazione art. 14, L. n. 689 del 1981 (termine quinquennale per la contestazione dell’infrazione) – Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche ed in particolare contraddittorietà, difetto di presupposto e motivazione – omessa considerazione e travisamento dei fatti – illogicità manifesta.

La circolare del 2006 è stata nel tempo superata da atti successivi del Cnf, correlati all’evoluzione normativa. Essa, inoltre, è stata adottata otto anni prima del provvedimento sanzionatorio impugnato e sei anni prima dell’avvio dell’istruttoria preliminare; ben oltre, quindi, il periodo quinquennale di prescrizione dettato, in via generale, per tutti i procedimenti sanzionatori dall’art. 28, L. n. 689 del 1981. Né può essere condiviso l’assunto dell’Agcm secondo cui la circolare concretizza un illecito permanente perché ancora presente sul sito. Aggiungasi che essendo chiaro, nella circolare incriminata, il carattere eventuale e straordinario del prospettato potere di intervento dei Consigli dell’Ordine in materia di compensi professionali irrisori, l’Autorità avrebbe dovuto accertare se tali interventi si siano verificati e l’eventuale effetto anticoncorrenziale da essi prodotto.

D) Sul parere n. 48/2012 reso al Consiglio dell’Ordine di Verbania.

f) Violazione e falsa applicazione l. n. 248 del 2006 – Violazione art. 24 Direttiva 2006/123 e dell’art. 10, l. n. 247 del 2012 – Eccesso di potere in tutte le due figure sintomatiche ed in particolare contraddittorietà, travisamento, difetto di istruttoria, difetto di presupposto e motivazione.

Illegittimamente l’Agcm ha ritenuto che il parere n. 48 del 2012 ha un oggetto anticoncorrenziale ai sensi dell’art. 101 del Tfue e che il divieto ingiustificato all’impiego di uno strumento di diffusione delle informazioni pubblicitarie, di per sé rilevante ai fini antitrust, nel caso di specie risulti finalizzato a limitare l’intensificarsi della concorrenza di prezzo tra professionisti.

E) Sulla sanzione.

g) Violazione artt. 6 e 7 della Cedu – Violazione dei diritto di difesa – Prescrizione del potere sanzionatorio – Violazione del principio di legalità, sub specie violazione dei principi della prevedibilità e della pubblicità della sanzione – Violazione art. 23, par. 2, primo cpv, del Regolamento n. 1 del 2003 e dell’art. 15, L. n. 287 del 1990.

Anche l’ammontare della sanzione inflitta al Cnf è illegittimo. L’Agcm ha infatti erroneamente qualificato il comportamento del Cnf come espressione di una strategia unica, e ciò ha consentito di rinvenire una “infrazione unica e continuata” e, quindi, di prendere in considerazione, ai fini della quantificazione della sanzione, l’intero arco temporale che va dal 18 febbraio 2008 (momento in cui, a parere dell’Agcm, l’intesa ha avuto inizio con la ripubblicazione della circolare del 2006) ad oggi in quanto, seppure la circolare è stata eliminata anche come storico dal sito del Cnf, il parere n. 48/2012 non è stato formalmente revocato.

h) Eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche: in particolare illogicità, travisamento dei fatti, carenza di motivazione, non proporzionalità della sanzione.

L’Agcm non ha tenuto conto, ai fini della gravità, della mancanza di effetti da parte della asserita condotta anticompetitiva. Aggiungasi che l’Autorità ha ravvisato la gravità facendo leva sul periodo di vigenza della circolare, che invece ha avuto effetti per soli 6 mesi.

3. Si è costituita in giudizio l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), che ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, del ricorso.

4. La N. s.r.l. non si è costituita in giudizio.

5. Si è costituita in giudizio, con atto di intervento ad adiuvandum, notificato il 16 febbraio 2015 e depositato il successivo 28 febbraio, la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense, che ha sostenuto l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio impugnato dal Consiglio Nazionale Forense con riferimento alla parte relativa alla configurazione di un’intesa nella ripubblicazione della circolare n. 22 del 2006.

6. Alla Camera di consiglio del 25 febbraio 2015, sull’accordo delle parti, l’esame dell’istanza di sospensione cautelare è stato abbinato al merito.

7. All’udienza del 17 giugno 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

1. Oggetto del contendere è il provvedimento del 22 ottobre 2014 con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) ha inflitto al Consiglio Nazionale Forense (Cnf) la sanzione di Euro 912.536,40 per asserita violazione dell’art. 101 Tfue, per un unico comportamento anticoncorrenziale esplicato mediante due decisioni volte a limitare, direttamente e indirettamente, l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato. Con detto provvedimento l’Agcm ha anche invitato il Cnf a porre termine all’infrazione, dandone adeguata comunicazione agli iscritti, e ad astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata nonché a comunicare, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione delle misure richieste.

Il riferimento è innanzi tutto alla circolare 22-C/200 pubblicata – a guisa di premessa unitamente alle tariffe ministeriali approvate con D.M. 8 aprile 2004, n. 127 (Regolamento recante determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali, in materia civile, amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali) ed al successivo D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27) – nella banca dati gestita dall’Ipsoa, raggiungibile dalla homepage del sito istituzionale internet del Cnf (dal febbraio 2008 all’ottobre 2013), e nello stesso sito del Cnf (dal luglio 2009 al novembre 2012), che reintrodurrebbe di fatto le tariffe minime, non più obbligatorie a seguito della riforma Bersani (art. 2, D.L. 4 luglio 2006, n.223) e definitivamente eliminate con l’abrogazione generalizzata delle tariffe professionali disposta dall’art. 9, commi 1 e 4, D.L. 24 gennaio 2012, n. 1. La circolare afferma, infatti, che gli avvocati, che dovessero richiedere compensi inferiori ai minimi tariffari, commetterebbero violazioni delle norme deontologiche, esponendosi in tal modo a sanzioni disciplinari da parte degli organi competenti.

L’Agcm ha rilevato poi altra esplicazione del comportamento anticoncorrenziale nel parere n. 48 dell’11 luglio 2012, reso dal Cnf in risposta ad una richiesta del Consiglio dell’Ordine di Verbania sulla compatibilità con l’art. 19 del Codice deontologico dell’offerta, da parte di un avvocato, di prestazioni professionali scontate mediante siti web. A suo avviso il suddetto parere introdurrebbe una restrizione della concorrenza tra i professionisti sottoposti alla vigilanza del Consiglio Nazionale Forense, impedendo loro di utilizzare determinate piattaforme digitali per pubblicizzare i propri servizi professionali, anche con riguardo alla componente economica degli stessi.

Il Cnf ha nella specie ritenuto che il gestore del sito web “Amica Card” si porrebbe, a titolo oneroso, come soggetto interposto tra l’avvocato e il cliente per garantire al primo il procacciamento di clienti, attratti da promesse di sconto senza aver prima preso concreta cognizione della professionalità dell’avvocato.

Con il lungo ed articolato ricorso sono dedotti cinque profili di doglianza:

il primo (dal primo al terzo motivo), volto a contestare il potere dell’Agcm di valutare gli atti del Consiglio Nazionale Forense, sia in relazione all’iter procedimentale seguito che alla natura e al contenuto delle decisioni incriminate;

il secondo (quarto motivo), con il quale si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea;

il terzo e quarto (quinto e sesto motivo) tesi a dimostrare che entrambe le decisioni contestate (id est, la circolare ed il parere) non si sostanziano in una restrizione della concorrenza;

il quinto (settimo e ottavo motivo) volto a contestare il quantum della sanzione comminata.

2. Ritiene il Collegio di dover esaminare prioritariamente, per ragioni di ordine logico-giuridico, il secondo motivo, con il quale il Cnf afferma che, ove pure le decisioni contestate concretizzassero intese restrittive della concorrenza, la procedura eventualmente applicabile era quella dettata dall’art. 21 bis, L. 10 ottobre 1990, n. 287, stante la natura di “pubblica amministrazione” rivestita dal Cnf e non, come assume l’Agcm nel provvedimento impugnato, di “associazioni di imprese”.

Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione, assumendo come fondamento del suo argomentare un presupposto che trova smentita nella ormai consolidata giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia 18 luglio 2013, C-136/12) e del giudice amministrativo nazionale (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238; Tar Lazio, sez. I, 1 aprile 2015, n. 4943; id.16 febbraio 2015, n. 2688).

Giova premettere che l’art. 2, L. 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) ha disposto che “Sono considerate intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi, o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione, da parte degli altri contraenti, di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi”.

Richiamando principi espressi da ultimo dalla Sezione (16 febbraio 2015, n. 2688), in dichiarata adesione ad arresti più o meno recenti del giudice amministrativo, va premesso che la nozione di “impresa”, alla quale occorre fare riferimento per l’applicazione della L. n. 287 del 1990, è quella risultante dal diritto comunitario e si riferisce a tutti i soggetti che svolgono un’attività economica e, quindi, sono “attivi” in uno specifico mercato. Per questo sono ormai considerate “imprese”, ai fini specifici della tutela della libera concorrenza, anche gli esercenti le professioni intellettuali che offrono sul mercato, dietro corrispettivo, prestazioni suscettibili di valutazione economica (Tar Lazio, sez. I, 11 giugno 2014, n. 8349; id. 25 febbraio 2011, n. 1757; id. 17 maggio 2006, n. 3543 e 3 settembre 2004, n. 8368).

Corollario obbligato di tale premessa è la qualificabilità, in termini di “associazioni di imprese”, degli Ordini professionali (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238; Tar Lazio, sez. I, 11 giugno 2014, n. 8349; Cons. St., sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1099, Tar Lazio, sez. I, 11 marzo 2005, n. 1809).

Ai fini dell’applicabilità dell’art. 101 Tfue all’Ordine professionale, quale “associazione di imprese”, non rileva neanche lo svolgimento, da parte dello stesso, di funzioni pubblicistiche e l’avere uno statuto di diritto pubblico, applicandosi tale norma “ad accordi tra imprese e a decisioni di associazioni di imprese”. L’ambito giuridico, entro il quale ha luogo la conclusione di tali accordi e sono adottate dette decisioni nonché la definizione giuridica di questo ambito, dato dai vari ordinamenti giuridici nazionali, sono irrilevanti ai fini dell’applicazione delle regole di concorrenza dell’Unione e, in particolare, dell’art.101 Tfue (Corte giust. comm. ue. 28 febbraio 2013, C-1/12).

Con riferimento agli atti degli Ordini, poi, la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, ha più volte rilevato come occorra, nell’individuazione delle “deliberazioni”, avere riguardo ad una valutazione sostanziale, cosicché non è tanto necessaria una particolare struttura collegiale del decisum, quanto l’idoneità dello stesso a produrre effetti nei confronti degli appartenenti all’Ordine professionale (Tar Lazio, sez. I, 9 febbraio 2011, n. 1757 e Cons. St., sez. VI, 29 settembre 2009, n. 5864).

Infine, quanto agli effetti dell’intesa, la giurisprudenza ha evidenziato che sono vietate non solo le intese tramite le quali le imprese fissano i prezzi a livelli puntualmente determinati o stabiliscono esattamente prezzi minimi al di sotto dei quali esse si impegnano a non vendere, ma tutte le intese che mirino o abbiano per effetto di condizionare la libera determinazione individuale del prezzo e la sua naturale flessibilità, alterando la struttura del mercato e, quindi, la concorrenza (Cons. St., sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3026).

Né potrebbe appellarsi ad una presunta distinzione tra concorrenza commerciale e concorrenza professionale, che trova una netta smentita nella giurisprudenza della Corte di giustizia (18 luglio 2013, C-136/12), che ha recentemente riaffermato – conformemente peraltro, ad una giurisprudenza consolidata – il principio secondo cui la nozione Eurounitaria di impresa include anche l’esercente di una professione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 Tfue (Tar Lazio, sez. I, 1 aprile 2015, n. 4943).

Dalla riconducibilità degli Ordini professionali alle “associazioni di imprese” consegue che le deliberazioni dagli stessi adottate sono, di massima, ascrivibili a quelle descritte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 287 del 1990 (Tar Lazio, sez. I, 1 aprile 2015, n. 4943).

Tale conclusione si estende alla circolare 22-C/2006 ed al parere n. 48 del 2012, entrambi adottati dal Cnf per disciplinare aspetti economici (e concorrenziali) dell’attività professionale svolta dagli avvocati e non, invece, nell’esercizio di una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà né di prerogative tipiche dei pubblici poteri (Corte giust. comm. ue 18 luglio 2013, C-136/12).

Contrariamente a quanto assume parte ricorrente nella memoria depositata il 13 maggio 2015, tale conclusione “non confonde il merito della questione con l’iter procedurale diretto alla sua delibazione”. Il contenuto della circolare e del parere è un aspetto fattuale indubbio; altro è, invece, il connotato che tale contenuto assume, anticoncorrenziale o meno, e questo sì, giustamente, è questione di merito.

3. Le argomentazioni sopra esposte, alle quali si rinvia ai sensi dell’art. 3 c.p.a., conducono alla reiezione anche del terzo motivo di ricorso, stante il contenuto proprio delle due decisioni incriminate, che attiene all’aspetto economico della professione svolta dagli avvocati, sub specie di applicabilità dei minimi tariffari e di possibilità di pubblicizzare, avvalendosi di piattaforme digitali, gli sconti che singoli professionisti effettuano sul compenso che dovrebbero richiedere per la prestazione da rendere.

Nel rinviare a quanto sarà di seguito chiarito dal Collegio, nell’esaminare gli specifici motivi dedotti in relazione all’effettiva portata anticoncorrenziale delle due predette decisioni, deve in questa sede solo essere richiamato il principio secondo cui il fine di tutelare il consumatore, assicurandogli una prestazione di qualità che potrebbe essere compromessa dalla richiesta di corrispettivi eccessivamente esigui, viene adeguatamente perseguito dall’ordinamento nazionale tramite strumenti, che trovano il loro principale ambito di applicazione nella disciplina del singolo rapporto tra professionista e cliente, e si traducono nella previsione di rimedi civilistici, la cui piena operatività non richiede l’attribuzione di alcun potere di vigilanza all’Ordine professionale (Cons. St., sez. VI, 22 gennaio 2015, n. 238).

4. Con il primo motivo si deduce l’illegittimità del Regolamento dell’Agcm, approvato con D.P.R. 30 aprile 1998, n. 217, per contrasto con gli artt. 6 Cedu e 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali, nella parte in cui concentra sullo stesso Organo, il Collegio, la fase inquirente e quella decidente, con conseguente mancanza del requisito dell’imparzialità sia soggettiva che oggettiva, presupposto questo imprescindibile per i procedimenti che si concludono con una sanzione di natura penale, quale è quella inflitta dall’Agcm.

Priva di pregio è l’eccezione di inammissibilità di tale motivo, sollevata dall’Agcm con la memoria depositata il 30 maggio 2015 sul rilievo che non sarebbe stato dimostrato l’interesse immediato e diretto, leso dall’impugnato regolamento. Rileva infatti il Collegio che nella prospettazione di parte ricorrente la lesione deriva dall’applicazione di una disciplina procedimentale priva del connotato dell’imparzialità, con la conseguenza che l’atto terminale del procedimento – id est l’affermazione della configurabilità di una condotta anticoncorrenziale da parte del Cnf e la sanzione allo stesso comminata – questo si indubbiamente lesivo della sfera giuridica del ricorrente, sarebbe illegittimo perché adottato a conclusione di procedimento ex se viziato.

Peraltro il motivo, seppure ammissibile, non è suscettibile di positiva valutazione.

Inconferenti risultano i richiami operati dall’Agcm, nella memoria depositata il 30 maggio 2015, ad una lontana sentenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. VI, n. 7265 del 2003), che ha affermato come “la disciplina dettata dal D.P.R. n. 217 del 1998 sia rispettosa del principio del contraddittorio”, atteso che nel gravame in esame il vizio denunciato da parte ricorrente si riflette nella mancanza dei connotati di imparzialità ed obiettività in capo all’organo decidente, coincidendo questo con quello inquirente, e non in una carenza, nel procedimento sanzionatorio, della fase partecipativa e della tutela del diritto di difesa.

Al fine del decidere occorre invece anche questa volta richiamare quanto già chiarito, in un recente arresto, dalla Sezione.

Ha ricordato il Tar (1 aprile 2015, n. 4943) che la consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, pur accogliendo una nozione molto ampia di illecito penale, afferma comunque che la conformità con l’art. 6 Cedu non viene meno qualora, in un procedimento di natura amministrativa, una pena sia inflitta da un’autorità amministrativa, purché la decisione di questa “che non soddisfi le condizioni di cui all’art. 6, par. 1, debba subire un controllo a posteriori da un organo giudiziario avente giurisdizione piena”: invero “la natura di un procedimento amministrativo può differire, sotto diversi aspetti, dalla natura di un procedimento penale nel senso stretto della parola”, e se tali differenze non possono esonerare gli Stati contraenti dal loro obbligo di rispettare tutte le garanzie offerte dall’art. 6, possono tuttavia influenzare le modalità della loro applicazione.

Nel caso di specie il Consiglio Nazionale Forense ha avuto la possibilità di impugnare la sanzione amministrativa in questione dinanzi al Tar, che emetterà una decisione appellabile innanzi al Consiglio di Stato e “tali organi soddisfano i requisiti di indipendenza e di imparzialità del ‘giudice’ di cui all’art. 6 della Convenzione” ed esercitano in materia una piena giurisdizione.

In conclusione, insomma, secondo la vincolante interpretazione della Corte di Strasburgo, non si può ipotizzare un contrasto tra l’art. 6 della Convenzione e l’ordinamento nazionale ove quest’ultimo comunque stabilisca una tutela giurisdizionale rispettosa dei principi fissati dal ripetuto art. 6, come si verifica, appunto, per le sanzioni in materia di concorrenza. Tutela che la stessa Corte Edu (27 settembre 2011, C. Menarini c. I.) ha ritenuto estensibile (e, nella specie sottoposta al suo esame, estesa) al merito, sostanziandosi in un “controllo a posteriori da parte di un giudice avente giurisdizione estesa al merito; pertanto nessuna violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione può essere rilevata”.

Tali argomentazioni rendono evidente come non risulti violato, dalla disciplina impugnata, neanche l’art. 47 della Carta diritti fondamentali ue.

Giova aggiungere che la disciplina dettata dal Regolamento per lo svolgimento del procedimento, che concentra la pressocché totalità dello stesso in capo al Collegio, non è in ogni caso ex se sintomo di carenza di obiettività. E la fattispecie all’esame del Collegio ne è la prova. Dal provvedimento impugnato (parr. 104 e 105) risulta che inizialmente erano state contestate al Consiglio Nazionale Forense due distinte intese ma che il Collegio ha poi ritenuto che, “alla luce del contesto fattuale e normativo nel quale si iscrivono, le decisioni poste in essere dal Cnf manifestino un comune obiettivo anticoncorrenziale, consistente nel limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, segnatamente con riferimento alle condizioni economiche dell’offerta dei servizi professionali”. “Pertanto, in parziale difformità dalla valutazione oggettiva dagli Uffici nella Comunicazione delle Risultanze Istruttorie, le decisioni di cui alla circolare n. 22-C/2006 e al parere n. 48 del 2012 costituiscono un’intesa unica e continuata dell’art. 101 Tfue” (par. 107).

5. Passando all’esame dei motivi che coinvolgono il merito del provvedimento, ritiene il Collegio, in ossequio al principio di sinteticità cui sono tenute non solo le parti ma anche i giudicanti, di dover vagliare congiuntamente dapprima tutti i profili di doglianza volti a contestare la conclusione, cui è pervenuta l’Antitrust, di ritenere anticoncorrenziale la circolare n. 22-C/2006, e poi quelli rivolti avverso analoga decisione riferita al parere n. 48/2012.

Con riferimento alla circolare n. 22-C/2006 – pubblicata sul sito del Cnf dal luglio 2009 al novembre 2012 e nella banca dati dal febbraio 2008 all’ottobre 2013 – il ricorrente afferma preliminarmente (prima censura dedotta con il quarto motivo) che la sua pubblicazione nella banca dati è da addebitare alla società (Ipsoa) che si occupa della gestione documentale dei pareri e dei documenti del Cnf, nonché della relativa banca dati della stessa società, alla quale si accede dal sito internet del Consiglio Nazionale Forense. Si tratterebbe di un mero disguido non imputabile, dunque, al Cnf, come dimostrato anche dalla circostanza che lo stesso Consiglio, in occasione dell’indagine conoscitiva sul settore degli ordini professionali IC 34 avviata nel gennaio 2007 dalla stessa Agcm – indagine che aveva evidenziato problemi antitrust derivanti dalla circolare in questione – aveva superato tali rilievi con l’adozione della circolare n. 23-C/2007, che aveva dichiaratamente superato la precedente del 2006, e rimuovendo quest’ultima dalla Sezione “Circolari” del sito web del Cnf.

Aggiunge che, in ogni caso, non è vero che la circolare reintroduce l’obbligatorietà delle tariffe minime abolite dal legislatore, essendo stata da un lato espressamente superata dalla successiva circolare 23-C/2007 e dall’altra intendendo garantire la qualità dei servizi professionali individuando in capo al Cnf un potere di intervento straordinario circoscritto ai compensi professionali palesemente e abnormemente irrisori, che impediscono al professionista di esercitare il proprio incarico con la dovuta diligenza. La circolare va dunque valutata nel contesto – temporale e normativo – nel quale si colloca (quinto motivo).

Il Collegio ritiene fondato, ed assorbente, il rilievo formulato con il quinto motivo.

Giova premettere che la contestazione mossa dall’Autorità è legata alla sua ripubblicazione, unitamente ai dd.mm. n. 127 del 2004 e 140 del 2012, nel sito internet del Cnf e nella banca dati gestita dall’Ipsoa e accessibile dallo stesso sito, intravedendo l’Antitrust in tale circostanza la reintroduzione dell’obbligatorietà dei minimi tariffari, in palese violazione del decreto Bersani e in contrasto con la successiva evoluzione normativa, conclusasi con l’art. 9, D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, che ha abrogato del tutto le tariffe professionali.

La ripubblicazione in questione, però, non è frutto di un intento anticoncorrenziale da parte del Cnf.

Si tratta di conclusione che non vuole affatto superare la costante giurisprudenza, alla quale la Sezione ha sempre aderito, secondo cui è sufficiente che un’intesa abbia un oggetto anticoncorrenziale ai fini della sua qualificazione in termini di illiceità, a prescindere dal fatto che sia dimostrato che la stessa abbia materialmente prodotto effetti sul mercato. L’applicazione, nella specie, di tale principio presupporrebbe, infatti, che la pubblicazione della circolare fosse stata voluta e/o commissionata (per la banca dati) all’Ipsoa allo scopo precipuo di reintrodurre, di fatto, i minimi tariffari. Ma così non è. La ripubblicazione nel 2008 di tale documento – sia stata frutto di un errore imputabile alla società che gestisce la banca dati (Ipsoa) o allo stesso Cnf – non può avere avuto di certo lo scopo che l’Agcm gli attribuisce atteso che in alcun caso esso avrebbe potuto essere raggiunto proprio per il comportamento tenuto, nel 2007, dal Cnf. La circolare in questione è stata infatti espressamente superata dalla nuova circolare n. 23/2007, adottata dallo stesso Consiglio Nazionale Forense, che oltre ad essere stata sempre visibile sul sito del Cnf, mentre quella del 2006 era stata per un certo periodo di tempo rimossa, è stata trasmessa a tutti i Consigli dell’Ordine, che ne sono i destinatari, ai quali, quindi, è stato ufficialmente comunicato, con un atto della stessa natura e portata della circolare del 2006, che quanto affermato nel 2006 non poteva più considerarsi operante. Né la circolare del 2007, nella parte in cui ha preso posizione sull’abrogazione della circolare del 2006, avrebbe potuto essere, a sua volta, considerata superata per il fatto materiale che la circolare 22-C/2006 era stata nuovamente pubblicata unitamente ai dd.mm. n. 127 del 2004 e 140 del 2012. Sarebbe stato, infatti, necessario un nuovo intervento scritto del Cnf, che invece non c’è stato.

In altri termini, e per concludere, il Collegio non ritiene condivisibile l’assunto dell’Agcm secondo cui aver ripubblicato la circolare n. 22-C/2006 sul sito internet e nella banca dati rappresenta la volontà, anticoncorrenziale, del Cnf di reintrodurre – attraverso la sua reviviscenza – l’obbligatorietà dei minimi tariffari, pena la sottoposizione a procedimenti disciplinari e la comminazione di sanzioni per i professionisti che dovessero discostarsi dai minimi individuati nelle (abrogate) tariffe ministeriali (par. 119).

Del resto, la riprova che il Cnf non avesse voluto, con l’incriminata ripubblicazione, ammonire i professionisti dal non chiedere un compenso proporzionato all’impegno è nella circostanza che il procedimento non consta essere stato attivato a seguito di denunce provenenti da avvocati né risultano procedimenti disciplinari avviati nei loro confronti e ciò a fronte della certezza, proveniente dal buon senso, che dal 2008 alcuni avvocati avranno chiesto compensi effettivamente irrisori.

L’accoglimento, in parte qua, del ricorso esime il Collegio dall’esaminare tutti gli altri motivi dedotti dal Cnf con riferimento alla contestazione rivolta dall’Agcm avverso la circolare del 2006, nonché le argomentazioni addotte dalla Cassa nazionale di presidenza ed assistenza forense, che è intervenuta nel presente giudizio ad adiuvandum.

L’annullamento, infatti, del provvedimento sanzionatorio dell’Agcm nella parte in cui qualifica come intesa la circolare n. 22 del 2006 soddisfa l’interesse azionato dal Cnf e fa recedere quello, dichiarato, dell’interventrice ad adiuvandum di far accertare fino a che punto sia per il professionista possibile chiedere anche compensi irrisori e sproporzionalmente inadeguati alla prestazione professionale resa, che potrebbero risultare lesivi del decoro e della dignità del professionista, impedendogli di esercitare il proprio incarico con la dovuta dignità.

6. Può ora passarsi all’esame dei motivi rivolti avverso il giudizio di anticoncorrenzialità reso dall’Agcm in relazione al parere n. 48/2012.

Alcune brevi precisazioni sono necessarie al fine del decidere.

Il parere incriminato è stato reso dal Consiglio Nazionale Forense in risposta al quesito, rivolto dal Consiglio dell’Ordine di Verbania con nota dell’8 giugno 2012 n. 197, “se la conclusione di un contratto pluriennale (anni cinque) con operatore privato titolare/gestore di banca dati in internet (Amica Card/Groupon) in forza del quale contratto l’avvocato si impegni a pubblicare un annuncio sul sito accessibile ai soli utenti registrati titolari di Amica Card o Groupon nel quale offra prestazioni professionali scontate a sua discrezione, corrispondendo per la ridetta pubblicazione all’operatore un compenso da prestarsi su base mensile (ca. Euro 10,00) per tutta la durata del contratto, possa costituire violazione dell’art. 19 Cdf. Si rappresenta che l’accesso al sito non è libero, ma limitato ai soli utenti che si sono registrati presso il gestore/operatore e sono titolari di Amica Card/Groupon da mostrare all’avvocato allorché ne chiedono le prestazioni per ottenere il permesso ‘sconto’ e che la pubblicazione sul sito avviene contro pagamento di corrispettivo”.

Al quesito il Cnf ha risposto rilevando come la funzione dei siti web, quali Amica Card, va ben oltre la pura pubblicità, proponendosi di generare un contatto tra l’offerente ed il consumatore destinatario della proposta; in tal modo il messaggio non si esaurisce nel fine promozionale ma protende all’acquisizione del cliente. Ha aggiunto che “il gestore del sito web si pone, a titolo oneroso, come soggetto interposto tra l’avvocato e il cliente è, per consentirgli l’assunzione di incarichi; sotto tale profilo la vicenda integra la violazione del canone I del codice deontologico forense. Inoltre le modalità di diffusione del messaggio rendono palese la concorrente violazione del canone III dello stesso art. 19 il quale – integrato in ragione della novità della questione, ai sensi dell’art. 60 del Codice deontologico forense – va interpretato estendendosi al divieto di raggiungere in via specificamente generalizzata il consumatore (cliente solo potenziale) tramite i suoi strumenti di accesso alla rete internet”.

In sede prima amministrativa e poi giudiziale il Cnf ha fornito una “interpretazione autentica” di detto parere chiarendo che, nella parte in cui esso si riferisce al “divieto di raggiungere in via aspecifica e generalizzata il consumatore (cliente solo potenziale) tramite i suoi strumenti di accesso alla rete internet”, deve essere inteso non nel senso di precludere all’avvocato l’utilizzo di strumenti informatici e telematici per esercitare il diritto alla pubblicità informativa, ma piuttosto il ricorso a intermediari remunerati per il procacciamento di clientela, anche se tale intermediazione avviene tramite piattaforme telematiche”. La violazione del Codice deontologico è dunque ravvisata non nella pubblicità dell’attività svolta attraverso una vetrina on line, ma nell’asserito utilizzo, da parte del professionista e dietro compenso, di un procacciatore di clienti.

II parere è stato giudicato espressione di intesa anticoncorrenziale ai sensi dell’art. 101 Tfue perché inibisce, richiamando la violazione dell’art. 19 del Codice deontologico, il ricorso da parte degli avvocati ad un importante strumento per pubblicizzare e diffondere informazioni, anche di carattere economico, circa la propria attività professionale, limitando lo sviluppo di un’effettiva concorrenza nel mercato, con evidenti ricadute negative sui consumatori. Il tutto partendo dall’erroneo presupposto che la Amica Card altro non sarebbe che un procacciatore di clienti.

Tali conclusioni sono censurate, sotto diverse angolazioni, dal Cnf.

Le argomentazioni di parte ricorrente non sono condivisibili.

Innanzitutto non rileva la natura non vincolante del parere, affermata dal Cnf (pag. 62 dell’atto introduttivo del giudizio), essendo di elementare evidenza che la rilevazione da parte del Consiglio Nazionale Forense di un comportamento violativo del Codice deontologico, fosse anche espresso in forma non vincolante, di fatto scoraggia il professionista dal proseguire in un comportamento che potrebbe essere suscettibile di procedimento disciplinare. Né è sul punto conferente il richiamo, operato dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, alla sentenza di questa Sezione n. 8347 del 30 luglio 2014, che aveva annullato una sanzione inflitta dall’Antistrust sul rilievo che la circolare, in quel caso incriminata, si era limitata a “manifestare una mera opinione”, anche in considerazione – aveva chiarito nell’occasione il Tribunale – che essa circolare si “poneva come una iniziativa autonoma del Presidente”. Situazione, dunque, ben diversa da quella all’esame del Collegio nel quale il parere 48/2012 è stato adottato dall’Organo competente a rispondere, in modo ufficiale, ai quesiti dei Consigli degli Ordini degli avvocati.

Agli effetti del giudizio che l’Agcm ha reso sul parere in questione non rileva neanche la diffusione che questi ha avuto, limitata a dire del Cnf, considerevole, invece, secondo la società N. e l’Agcm, affinché un’intesa restrittiva sia giudicata illecita non è, infatti, necessario che produca anche l’effetto concreto di impedire, restringere o falsare la concorrenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16 settembre 2011, n. 5171), essendo sufficiente la mera idoneità della condotta a produrre i citati effetti distorsivi (Tar Lazio, sez. I, 16 febbraio 2015, n. 2688).

Afferma ancora il ricorrente che il provvedimento impugnato è, in parte qua, viziato per travisamento dei fatti atteso che, diversamente da quanto assume l’Autorità, il “fatto” che è stato stigmatizzato, nel parere in questione, dal Cnf non è “l’impiego di un nuovo canale di diffusione delle informazioni relative all’attività professionale” quanto, piuttosto, una pubblicità priva di seria informazione professionale e con una tale indeterminatezza da rischiare di trarre in inganno i possibili clienti finali.

Si tratterebbe dunque, ad avviso del Consiglio Nazionale Forense, di una pubblicità violativa dell’art. 10, commi 1 e 2, L. 31 dicembre 2012, n. 247 perché ha ad oggetto una mera percentuale di sconto senza alcuna indicazione del prezzo su cui calcolare tale sconto e senza alcuna sia pur generica descrizione del tipo di attività professionale offerta.

Anche questo motivo non è suscettibile di positiva valutazione atteso che l’imputazione fatta al Cnf in relazione al parere redatto nel 2012 deve essere individuata da una lettura complessiva di tutti i paragrafi allo stesso dedicati e non estrapolando singole frasi. Leggendo in tale modo il provvedimento risulta evidente che, contrariamente a quanto assume il Cnr, il riferimento che l’Agcm fa, nell’indicare il rilievo mosso dal parere stesso, non è al mero strumento utilizzato dagli avvocati per farsi pubblicità quanto piuttosto l’offerta, in tale piattaforma on line, di sconti su prestazioni professionali del tutto generiche, tali da far convergere la scelta sul professionista che offre lo sconto più alto senza che alcun rilievo assuma la qualità del servizio reso (par. 141).

Il Collegio condivide poi la natura anticoncorrenziale del parere.

Non può infatti individuarsi, contrariamente a quanto afferma il ricorrente, in Amica Card un intermediatore che procura un incontro tra il soggetto che cerca una prestazione professionale e il professionista che offre tale servizio. Amica Card mette infatti solo a disposizione dell’avvocato, in cambio di un corrispettivo in denaro, uno spazio on line nel quale questi può presentare l’attività professionale svolta e proporre uno sconto all’utente che decida di utilizzare i suoi servigi. Come correttamente ha chiarito l’Autorità nel provvedimento impugnato (par. 135) il ruolo svolto da Amica Card non è molto diverso da quello di chi affitta uno spazio di un giornale, consentendo al professionista di pubblicizzare l’attività svolta.

L’analitica illustrazione delle modalità di funzionamento del servizio Amica Card (parr. 71 ss.), compiuta da N. s.r.l., titolare del circuito Amica Card, porta alla reiezione anche degli ulteriori profili di doglianza dedotti. Una volta che il soggetto, che necessita della prestazione di un avvocato, ha individuato il professionista al quale rivolgersi, eventualmente anche in relazione allo sconto che questo offre, chiede autonomamente a questi un appuntamento e solo dopo aver parlato de visu con l’avvocato prescelto deciderà se rilasciargli il mandato.

La piattaforma Amica Card, dunque, altro non è che un lecito strumento con il quale gli avvocati possono farsi pubblicità cercando di creare un primo contatto con il potenziale cliente, fermo restando che per l’eventuale conferimento del mandato (non essendo il primo approccio per nulla vincolante) si seguiranno le vie ordinarie: non si stipulerà quindi un contratto a distanza ma ci si procurerà un incontro con il professionista per verificare se sussistono le condizioni per conferirgli il mandato.

7. Afferma ancora il ricorrente che illegittimamente l’Agcm ha ritenuto che il parere n. 48/2012 (così come la circolare 22-C/2006) concretizzasse una restrizione della concorrenza c.d. “per oggetto”, invece di valutarne gli effetti anticoncorrenziali o pro concorrenziali secondo le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione, atteso che l’oggetto anticoncorrenziale del parere è ex se sufficiente, con la conseguenza che non è necessario procedere all’analisi dei potenziali effetti anticoncorrenziali della stessa. “Oggetto” ed “effetti” sono, infatti, alla luce di una costante giurisprudenza del giudice comunitario (Corte giust. comm. ue C501/06P), alternativi tra loro, con la conseguenza che la sussistenza del primo rende inutile accertare se sussistono anche i secondi.

8. Gli ultimi due motivi di ricorso sono volti a censurare, per profili diversi, il quantum della sanzione (Euro 912.536,40).

Due premesse sono necessarie prima di passare al loro esame.

La prima attiene ai poteri di questo giudice al quale, come ? noto, l’art. 134, comma 1, lett. c, c.p.a., attribuisce una giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi a oggetto provvedimenti dell’Agcm di applicazione di sanzioni pecuniarie, il che consente al Tar Lazio e al Consiglio di Stato non solo di annullare gli atti impugnati in tutto o in parte, ma anche di modificare, sulla base di una propria valutazione, la misura delle sanzioni pecuniarie con essi comminate (Cons. St., sez. V, 5 marzo 2015, n. 1104).

La seconda considerazione attiene al criterio con il quale sono state valutate le due decisioni giudicate anticoncorrenziali, che l’Agcom ha ritenuto (par. 105 del provvedimento impugnato) manifestare un unico obiettivo anticoncorrenziale, consistente nel limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, segnatamente con riferimento alle condizioni economiche dell’offerta dei servizi professionali.

Tale conclusione ha indubbiamente influito sull’esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità, che ha comminato un’unica sanzione, il cui importo ha tenuto conto: a) della natura dell’infrazione, considerata “grave” (par. 15-156 del provvedimento impugnato); b) della durata dell’infrazione stessa, con la valutazione dell’intero arco temporale nel quale detti comportamenti sono stati posti in essere.

Sotto tale ultimo profilo l’Agcm ha ritenuto che l’intesa avesse avuto inizio quanto meno a partire dal 18 febbraio 2008, con la ripubblicazione sul sito internet e in banca dati della circolare 22-C/2006 e che fosse ancora in corso all’atto di adozione del provvedimento, non risultando avere il Cnf comunicato agli iscritti alcun provvedimento di revoca del parere n. 48/2012. L’Autorità poi, per quantificare il quantum debeatur, ha considerato il fatturato realizzato dal Cnf nell’ultimo anno intero in cui ha partecipato all’infrazione, prendendo a riferimento il valore relativo ai contributi versati dagli avvocati iscritti negli albi e negli elenchi, e ha moltiplicato tale importo per il coefficiente di gravità assegnato alla violazione e per il numero di anni della stessa. Risultando, da tale calcolo, l’importo della sanzione (Euro 3.155.613,30) superiore al limite edittale previsto dall’art. 15, comma 1, L. n. 287 del 1990 (“dieci per cento del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”), la sanzione è stata ridotta ad Euro 912.536,40, tenendo presente la capacità complessiva dell’associazione e, dunque, il totale delle entrare della stessa (par. 168).

9. Si può ora passare all’esame delle censure rivolte, con il settimo motivo, avverso la sanzione, prescindendo da quelle che attengono alla parte relativa al comportamento anticoncorrenziale che sarebbe stato tenuto con la ripubblicazione della circolare 22-C/2006, che il Collegio ha invece giudicato non sostanziare un’intesa restrittiva della concorrenza.

Il ricorrente denuncia innanzitutto la mancata partecipazione procedimentale con riferimento alla decisione di considerare l’infrazione “unica e continuata”, mentre in sede di istruttoria erano state considerate due distinte infrazioni. Il Cnf riconnette il proprio interesse a muovere tale doglianza al rilievo che la configurazione in un’infrazione unica e continuata “può ben aver inciso sulla qualifica della stessa come grave” e, quindi, contribuito alla determinazione dell’elevata sanzione.

La censura è inammissibile per difetto di interesse atteso che nella qualificazione dell’infrazione come “grave” ha inciso il contenuto delle decisioni incriminate, il contesto normativo nel quale l’infrazione si colloca e il soggetto che le ha adottate, id est “l’organo esponenziale dell’avvocatura italiana, peraltro titolare, oltre che del potere di regolazione della condotta deontologica degli iscritti, anche del potere di sindacare nel merito, in ultima istanza, le violazioni deontologiche commesse dai medesimi”. Nessun riferimento quindi all’unicità dell’infrazione.

Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, il Collegio rileva che può considerarsi legittimo, ai fini dell’irrogazione della sanzione, il riferimento al totale delle entrate contributive associative quale “fatturato” ex art. 15, L. n. 287 del 1990, atteso che la nozione di cui a tale norma di legge non può che essere intesa in senso lato, in riferimento ai soggetti sanzionati e alla loro conformazione associativa. Nel caso di specie la contribuzione associativa ben poteva essere presa a parametro, come già evidenziato da questa Sezione (1 aprile 2015, n. 4943; 16 febbraio 2015, n. 2688), secondo la quale – in relazione a sanzione “anticoncorrenziale” avverso un Ordine professionale – tale modalità era legittima “avuto riguardo agli orientamenti contenuti nella Comunicazione della Commissione Europea 2006/C 210/02 recante orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lett. a), del regolamento CE n. 1/2003. Inoltre, ancora una volta richiamando principi già espressi dalla Sezione (sentenze 30 luglio 2014, n. 8349, 25 febbraio 2011, n. 1757 e 11 marzo 2005, n. 1809), deve ritenersi corretta la determinazione della sanzione da irrogarsi, ai sensi dell’art. 15, L. n. 287 del 1990, a carico di un ente di tipo associativo assumendo quale base di computo le entrate contributive ad esso proprie, per quanto queste non ineriscano ad un fatturato in senso stretto”.

10. L’ultimo motivo di ricorso, con il quale è dedotto il vizio di eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, deve essere respinto, nella parte rivolta avverso la configurabilità di un’intesa nel parere n. 48/2012, per le ragioni argomentate sub 6.

11. Per le argomentazioni che precedono il quantum della sanzione deve essere rivisto solo nella parte in cui si considera come intesa anticoncorrenziale anche la circolare 22-C/2006.

Il Collegio rimette all’Agcm la rideterminazione del nuovo ammontare della sanzione, ma tenendo conto che sull’attuale ammontare (Euro 912.536,40) ha inciso, oltre alla gravità, anche la durata dell’infrazione, che è stata fatta decorrere dal 18 febbraio 2008, cioè dalla data di ripubblicazione della circolare, mentre il parere – rispetto al quale però non c’è stato ravvedimento – è stato adottato l’11 luglio 2012.

12. Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere accolto nei sensi di cui in motivazione.

Nella parziale reciproca soccombenza il Collegio ravvisa, in base al combinato disposto di cui agli articoli 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c., eccezionali ragioni per l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto annulla in parte il provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) il 22 ottobre 2014 e rimette all’Agcm la rideterminazione della sanzione secondo i criteri dettati nella parte motiva.

Compensa integralmente tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2015

con l’intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore

Ivo Correale, Consigliere

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