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Calcolo dell’assegno di mantenimento: non basta la ricchezza del padre

Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione, con sentenza n. 25134 del 10 ottobre, stabilisce che l’ammontare dell’assegno di mantenimento nei confronti del figlio minore non può essere aumentato arbitrariamente basandosi solo sull’effettiva ricchezza del padre. La motivazione della scelta, semmai, deve essere ben documentata e provata.
La decisione è stata presa in seguito al ricorso presentato da un genitore contro il giudizio espresso in Corte d’Appello. Quest’ultima aveva deciso di raddoppiare la cifra dell’assegno di mantenimento già stabilita dal Tribunale (800 €) portandolo a 1.500 € mensili.
Secondo quanto sostenuto dal padre, e confermato dalla Cassazione, l’aumento è stato stabilito senza tenere conto di alcuni fattori base: le reali esigenze del minore, nato fuori dal matrimonio, e una comparazione dei redditi di entrambi i genitori; la motivazione risiedeva in una impossibilità di calcolo delle «esigenze di un bambino che viva in ambienti familiari particolarmente benestanti», andando così a tenere conto solo le «oltremodo consistenti risorse reddituali e patrimoniali» del padre.
Come ricordato dalla Cassazione, le giuste valutazioni del caso vanno eseguite in linea con quanto previsto dall’art. 377-ter del Codice di rito civile, introdotto grazie al decreto legislativo 154/2013 sulla filiazione; questa norma tratta proprio i figli nati fuori dal matrimonio. I parametri di cui tenere conto per un giusto calcolo dell’assegno di mantenimento, quindi, sono:

  • esigenze del figlio;
  • tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori;
  • tempi di permanenza presso il singolo genitore;
  • compiti domestici assunti dai genitori.

Di certo, tenendo conto di quanto appena detto, il solo patrimonio del padre e il fatto che il minore vivesse prevalentemente con la madre non sono fattori sufficienti per giustificare un aumento (così consistente, per giunta) dell’assegno mensile.
 

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