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Quando i leoni da tastiera perdono la criniera

Ai tempi di internet e dei social media accade sovente che per il tramite di un computer o di uno smartphone l’ansia di comunicare si elevi a tali vette di aggressività da trascendere in reato. È quanto è accaduto al Sig. Saverio Tommasi, giornalista e blogger, quindi non uno sprovveduto nell’uso delle parole che pure gli sono valse in quel di Firenze nei giorni scorsi una condanna per diffamazione aggravata ai danni di una parrucchiera di Fermo, la Sig.ra Pisana Bachetti. «La super testimone dell’omicidio, quella che con la sua versione aveva tentato di scagionare Amedeo Mancini, si sta rivelando una bufalara, una che quando vede un immigrato impazzisce, come quando denunciò i cinesi in strada con i retini per catturare i gatti»così il Tommasi apostrofò la Bachetti in un commento a un post sul profilo social di Matteo Salvini nell’occasione della morte a Fermo di Emmanuel Chidi Namdi del 5 luglio 2016.
Perché la condanna? Non conosco le carte processuali, ma vi sono almeno quattro evidenze tecniche.
La prima è che di certo per ledere la reputazione altrui non occorre attribuire a taluno un fatto illecito, bensì è sufficiente attribuirgli un comportamento che, alla luce di criteri morali condivisi dai più, lo esponga alla riprovazione generale.
La seconda è che la critica è lecita quando risponde a fatti di verità espressi con toni misurati, non altrettanto quando si sostanzia in affermazioni gratuite espressive di un sentimento di ostilità.
La terza è che per diffamare non occorre nominare la persona offesa per nome e cognome, ma è sufficiente che questa possa essere facilmente identificabile.
La quarta è che la diffamazione è ancor più grave se commessa attraverso un mezzo di pubblicità, quale è tipicamente un canale social, che di per se stesso può raggiungere un numero indeterminabile di persone.
Se queste sono evidenze, nulla è dato sapere di due questioni di assoluto interesse.
All’apertura dell’indagine per diffamazione si è accompagnato un sequestro preventivo ossia l’oscuramento del post, anzi dell’intera pagina social ricollegabile all’indirizzo IP del mittente il messaggio lesivo?
Coloro che hanno messo “mi piace” o addirittura condiviso il post diffamatorio sono stati perseguiti e condannati?
Entrambe le azioni avrebbero contribuito se non a contenere il danno perpetrato alla vittima, almeno a sensibilizzare i leoni da tastiera del rischio di ritrovarsi tra azioni penali e civili a perdere la criniera.
Comunque la donna, nonostante la gogna mediatica, fece il suo dovere di testimone contribuendo all’accertamento della reazione aggressiva di Emmanuel all’insulto di Amedeo, che valse a questo nel gennaio 2017 un patteggiamento per omicidio a 4 anni di reclusione nel riconoscimento tanto dell’aggravante razziale, quanto dell’attenuante della provocazione.

avv. Andrea Agostini


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