Sentenze

Tribunale di Venezia, Sez. III Civile – Ordinanza n. 4415/2015 del 8.1.2016 (Dott. E. Schiavon)

N. R.G. XXXX/XXXX

TRIBUNALE DI VENEZIA
– SEZIONE TERZA CIVILE –
ORDINANZA

nel procedimento iscritto al n. XXXX/15 promosso con ricorso depositato in data 04.06.XXXX

da

ricorrente rappresentato e difeso dall’avv. B. R.

contro

Ministero dcirinterno-Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona

resistente

rappresentato e difeso dal Presidente della Commissione Territoriale
Oggetto: impugnativa ex artt. 35 del D. Lgs. 28 gennaio 2008 n. 35 e 19 del D. Lgs. 1 settembre 2011 n. 150 del provvedimento di rigetto della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona del 21.04.XXXX 1.
Con ricorso depositato in data 04.06.XXXX, il ricorrente ha proposto impugnazione avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona in epigrafe indicato, con il quale la Commissione ha deciso di non riconoscere in suo favore Io status di rifugiato o la protezione internazionale sussidiaria o, in ulteriore subordine, quella umanitaria.
WHpHHH che chiede il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o umanitaria, lamenta un’errata valutazione del suo caso da parte dell’autorità amministrativa, la quale ha ritenuto che i fatti narrati a sostegno della domanda di protezione intemazionale dal ricorrente – che ha raccontato di essere fuggito
dal Pakistan per il timore di essere incarcerato, torturato ed ucciso dalle autorità di polizia a causa della sua militanza politica nel partito JKPNP che lotta per l’indipendenza del Kashmir – siano non credibili.
Il D.Lgs. n. 251 del 2007 – attuativo della direttiva 2004/83 CE recante le norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale – disciplina, sulla base dei principi già espressi dalla Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 (ratificata con L. n. 722 del 1954 e modificata dal Protocollo di New York del 31.1.67 ratificato con L. n. 95 del 1970) la materia della protezione internazionale e ne fissa le regole sostanziali. Così all’art. 2 lett. a) definisce la protezione internazionale e la identifica nelle due for-me dello status di rifugiato e protezione sussidiaria.
È definito rifugiato il “cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedente-mente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno” (art. 2 lett. e).
Sulla scorta di ciò si ritiene che debba essere dimostrato, con sufficiente attendibilità, quantomeno il fondato timore da parte del richiedente di essere perseguitato (Cass. S.U.. n. 4674/97) e si richiede che esso esponga la personale vicenda senza contraddizioni, che la stessa risulti essere compatibile con la situazione generale del paese di origine e, soprattutto, che vengano effettuati tutti gli sforzi possibili per circostanziare la domanda formulata (Cass. S.U. n. 27310/08).
La normativa nazionale con 1° art. 7 del D.Lgs. n. 251 del 2007 ha specificato che gli “atti di persecuzione” devono essere sufficientemente gravi per la loro natura e frequenza da rappresentare una violazione grave dei diritti umani e possono, in via esemplificativa, essere costituiti da atti di violenza fisica e psichica, provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari discriminatori per la loro natura o per le modalità di applicazione, azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, rifiuto dei mezzi di tutela giuridica, azioni giudiziarie in conseguenza di rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto quando questo possa comportare la commissione di crimini, atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
A sua volta 1° art. 5 del D.Lgs. n. 251 del 2007 prevede che responsabili di tali atti possono essere tanto lo Stato che partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio e soggetti non statuali se i primi o le organizzazioni internazionali non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.
Infine, l’art. 14 del medesimo decreto legislativo attribuisce il diritto di protezione sussidiaria in caso di danni gravi rappresentati da “condanna di morte o all’esecuzione della pena di morte”, è tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine, “minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
La Suprema Corte ha chiarito che requisito essenziale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate. Il relativo onere probatorio è che riceve un’attenuazione in funzione dell’intensità della persecuzione incombe sull’istante, per il quale è tuttavia sufficiente provare anche in via indiziaria la “credibilità” dei fatti da esso segnalati  (Cass. 18353/06) e che “presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico sono la condizione socio politica normativa del Paese di provenienza e la correlazione di questa con la specifica posizione del richiedente, senza che la prima possa fondarsi sul ricorso al notorio e che possa ricavarsi sillogisticamente la seconda dalla medesima, rilevando, invece, la situazione persecutoria di chi (per l’appartenenza ad etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze o stili di vita) rischi verosimilmente specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità fisica o libertà personale(Cass. n. 822/07). Nelle controversie in materia di protezione internazionale deve ritenersi in via generale attenuato l’onere probatorio incombente sul richiedente, cosi come oggi esplicitato dall’art. 3, comma 5 D.Lgs. n. 251 del 2007, il quale prevede che, qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri quando l’autorità competente a decidere ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata tornita idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente siano da ritenersi coerenti, plausibili e non in contrasto con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone relative al suo caso; d) egli abbia presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) il richiedente sia in generale attendibile.
Dal complesso della norma risulta pertanto che la prospettazione del ricorrente deve essere suffragata da prove e nel caso in cui ciò non sia avvenuto, occorre procedere ad una valutazione dell’attendibilità e della verosimiglianza dei fatti esposti, tenendo presente i criteri di valutazione legislativamente definiti.
Ciò premesso, nel caso di specie la Commissione Territoriale ha rigettato la richiesta del ricorrente ritenendo il suo racconto poco credibile e contraddittorio.
Ritiene, invece, il Tribunale che gli elementi addotti dal ricorrente a sostegno della domanda di protezione internazionale siano idonei ad integrare la prova di atti persecutori subiti, necessaria ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
Innanzitutto, deve osservarsi che l’esame comparativo dei requisiti relativi alla misura maggiore e quelli riguardanti la protezione sussidiaria, pongono in evidenza il differente grado di personalizzazione del rischio che deve essere accertato nelle due forme di protezione internazionale, sia con riferimento alle ipotesi descritte dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) (pericolo di morte o trattamenti inumani e degradanti), sia nell’ipotesi indicata nella lett. c) del medesimo articolo. Partendo da quest’ultima norma, nella protezione sussidiaria, la situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato (sentenza Corte di Giustizia n. 172 del 2009, Caso Elgafaji contro Paesi Bassi, principio ribadito con riferimento alla definizione di conflitto armato interno nella successiva sentenza del 30/1/2014 Caso Diakit n. 285-12) nel paese di ritorno può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale nella situazione di pericolo. In particolare, la Corte di Giustizia, nel caso Elgafaji, ha stabilito: “l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale; l’esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti impegnate con una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia”.
Il principio esposto dalla Corte di giustizia ha trovato puntuale applicazione in situazione di pericolo oggettivo derivante da violenza indiscriminata perché non controllata dalle autorità statuali in Cass. n. 8281 del 2013.
Peraltro anche con riferimento alle altre ipotesi di protezione sussidiaria, disciplinate nelTart. 14, lett. a) e b), l’esposizione al pericolo di morte o a trattamenti inumani e degradanti, pur dovendo rivestire un certo grado d’individualizzazione (per esempio, per l’appartenenza ad una comunità, ad un gruppo sociale, ad un genere, ad una fazione religiosa o politica etc.) non deve avere i caratteri più rigorosi del fumus persecutionis. La differenza con il rifugio politico si coglie, anche in queste ipotesi, nell’attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale e il pencolo rappresentato (Cass. 20/03/2014, n. 6503).
Nel caso di specie si reputa il racconto del ricorrente nel suo complesso plausibile, non smentito da elementi di segno contrario ed anzi avvalorato dalla documentazione prodotta, sé da essere pienamente valutabile ai fini dell’accoglimento della domanda (cfr. Cass. 994/12). In particolare può dirsi provata sia l’appartenenza del ricorrente al partito politico JKPNP che lotta per l’indipendenza politica del Kashmir (di cui fa parte la regione dell’Azad Kashmir sotto il controllo del Pakistan), sia il suo arresto avvenuto in due circostanze in cui egli manifestava per l’indipendenza del Kashmir, sia la circostanza che egli abbia subito torture durante il periodo di detenzione, sia infine che egli sia riuscito a fuggire in occasione del secondo arresto, approffittando del suo ricovero in ospedale per le lesioni riportate a causa delle torture che gli erano state inflitte, approfittare
11 ricorrente è stato quindi vittima di atti di persecuzione per ragioni legate alle sue opinioni politiche ed è quindi fondato il timore che nel caso di rientro nel paese di origine egli venga incarcerato, essendo criminalizzato in quel paese l’esercizio di diritti fonda-mentali quali la libertà di espressione; peraltro, affrontando un caso analogo la Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona con provvedimento reso in data 17/3/XXXX (richiamato nell’ordinanza del 17/11/XXXX emessa dal Tribunale di Venezia, giudice dott. Paolo Talamo, che è stata allegata dal ricorrente) ha accolto la domanda di protezione internazionale.
Conclusivamente, alla luce delle considerazioni sin qui svolte le vicende descritte dal ricorrente consentono di ritenere sussistente una condizione di persecuzione a fini politici direttamente rivolta verso la sua persona.
Quanto alle spese, la natura del provvedimento ne giustifica la compensazione.

P.Q.M.

– annulla il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona nella parte in cui non ha ravvisato sussistenti i presupposti per la concessione dello status di rifugiato;
– riconosce a nato l’01/10/1972 in Pakistan, lo status di rifugiato;
– dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti.
Si comunichi al ricorrente, alla Commissione Territoriale di Verona nonché al Pubblico Ministero.
Venezia, 8 gennaio 2016
Il Giudice Monocratico
Enrico Schiavon

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