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La stucchevole stortura del danno tanatologico

Nella sentenza n. 768/2017 del Tribunale di Rimini, la parte attrice richiede il riconoscimento del «danno tanatologico sofferto dalla defunta a causa del dolore fisico patito in conseguenza della frattura femorale e dal rapido deperimento organico provocato dall’aggravarsi dello stato infettivo».
Cos’è il danno tanatologico?
Come si può facilmente evincere dall’aggettivo, la cui radice è il termine greco thànatos indicante il concetto di morte, questa tipologia giuridica indica il danno conseguente alla sofferenza patita dal defunto prima di morire a causa delle lesioni fisiche derivanti da un’azione illecita compiuta da terzi.
Fa sorridere che in una società atomizzata come quella attuale si pensi al risarcimento del danno agli eredi per una vicenda privata come la sofferenza del congiunto; ci si può immaginare la stucchevole scena dei parenti che si riuniscono al capezzale di uno sconosciuto, visto forse una volta in vita, versando lacrime di coccodrillo. Sic est.
Vista la sottigliezza di tale concetto, va affrontata una questione preliminare prima di analizzare le diverse visioni giurisprudenziali.
Nonostante le sicure convergenze, va rigettata una visione unitaria delle finalità penale e civili; il concetto di collettività, sovente richiamato per giustificare il risarcimento del danno tanatologico, ha senso per la funzione deterrente del sistema penale ma è ridicola in ambito civile, finendo per pulire la millantata coscienza sociale con un assegno agli eredi.
Chiarito ciò,  la sentenza n. 1361/2014 della Cassazione ha riconosciuto per la prima volta la risarcibilità del danno tanatologico, rilevando come sia contraddittorio tutelare l’individuo che subisce lesioni anche lievi ma non quello che si vede ledere il bene supremo della vita.
Riconoscere la doverosità di tale danno, in relazione a un’apodittica gerarchia giuridica, è sicuramente naif; non a caso la sentenza n. 15350/2015 della Cassazione afferma che «l’argomento ”è più conveniente uccidere che ferire”, d’indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore».
La stessa sentenza aggiunge che «nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente».
In ogni caso, nonostante le perplessità, il danno tanatologico è riconosciuto laddove vi sia un apprezzabile lasso di tempo tra il fatto illecito e l’evento morte; nel caso di specie esso non avviene e quindi la richiesta va rigettata.
Non resta che citare le parole del filosofo Epicuro, riportate dalla stessa sentenza n. 15350/2015: «Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi».

Leggi il testo integrale – Tribunale di Rimini, sentenza n. 768/2017

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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