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Il consenso nella violenza sessuale

Superata la precedente distinzione tra atti libidinosi violenti e violenza carnale, l’art. 609 bis c.p. dice: «Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità (2) costringe taluno a compiere o subire atti sessuali (3) è punito con la reclusione da cinque a dieci anni». Chiarito il concetto, ci si può soffermare sulla disciplina del consenso.
Nella sentenza n. 45589/2017 il procuratore generale ricorre in Cassazione nella parte in cui non sono riconosciuti i gravi indizi di colpevolezza in capo a un soggetto, con la motivazione che la ragazza violentata ha assunto volontariamente sostanze alcoliche e stupefacenti.
Ora è necessario capire se possa configurarsi un concorso di colpa nell’atteggiamento della ragazza.
L’art. 43 del c.p. dice che «il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.»
Sicuramente può riscontrarsi imprudenza nella condotta della ragazza ma qual è il momento decisivo in cui deve esserci il consenso?
Ci viene in aiuto la Cassazione, secondo cui «quello che rileva non è chi ha cagionato lo stato di incapacità ma se al momento degli atti sessuali la donna era in grado o meno di esprimere il proprio consenso».
Stupisce che la Corte di Appello possa essere giunta a un ragionamento così illogico, in quanto la costrizione non viene magicamente meno per il solo stato di alterazione di un soggetto, più o meno
acuta. Né si potrebbe parlare di concorso di colpa, in quanto l’ubriachezza non è incitazione allo stupro, fino a prova contraria.

Leggi il testo integrale – Corte di Cassazione, sentenza n. 45589/2017

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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