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Il Ministro Orlando al Congresso ANM: "Impossibile trasformazione Paese senza vostro ruolo attivo"

Il Ministro Andrea Orlando al XXXII Congresso dell’ANM di sabato 24 ottobre: misurare i provvedimenti in base al rapporto tra economia e democrazia, “il rapporto che si viene a creare tra poteri non sottoposti ad alcun tipo di controllo democratico e l’affannoso tentativo delle democrazie, con i loro limiti e le loro difficoltà, di governare questi cambiamenti”.

Villa Romanazzi Carducci, Bari

Grazie Presidente.

Con la lealtà e la sincerità che il presidente mi sollecitava e che io credo debba caratterizzare il confronto, vorrei dire ciò che non mi persuade nell’impostazione che il presidente Sabelli ha dato nella sua relazione. Eppure vi sorprenderà: condivido molti punti: alcune cose possono essere messe in discussione, chiedere tagliandi, pensare la riconsiderazione di alcuni provvedimenti. Ne abbiamo fatti molti di provvedimenti, tanti contemporaneamente: una revisione, una verifica sicuramente è giusta. Vi sorprenderà perché non è quello che chiede Sabelli ciò che meno mi persuade.

Il punto che meno mi persuade è la chiave di lettura, cioè un’analisi ancora alla stregua della dialettica magistratura-politica. E non perché questo tema non sia inevitabilmente lo sfondo di qualunque processo legislativo. Ma ritengo che non sia questa, per dirla con le parole di un tempo, la contraddizione principale. Io ritengo che oggi, voi, il punto vero lo avete centrato con il titolo del vostro congresso. Cioè ponendo il tema del rapporto tra democrazia ed economia. Il rapporto che si viene a creare tra poteri non sottoposti ad alcun tipo di controllo democratico e l’affannoso tentativo delle democrazie, con i loro limiti e le loro difficoltà, di governare questi cambiamenti. Questo a me pare il tema, nel quale si inserisce anche il tema della legittimazione e della delegittimazione delle istituzioni, di tutte le istituzioni.

Con questa impostazione non reclamo una particolare benevolenza nei confronti dei provvedimenti, né cerco di parlare d’altro, perché i provvedimenti possono essere misurati anche da questo punto di vista, che non è un punto di vista banale: la capacità, cioè, di resistere alla forza bruta del potere e della pressione economica. Ma questo rimette in gioco tutti i soggetti delle istituzioni e chiede, appunto, non tanto un’autocritica di questo o quel pezzo, ma un’autocritica complessiva, per comprendere se siamo all’altezza della sfida che questi cambiamenti globali ci pongono.

Io ho letto la bella relazione che Rosario Livatino tenne nell’84 e ho apprezzato non solo la pacatezza del tono e il sorprendente equilibrio di quel giovane magistrato, ma anche e soprattutto l’intuizione rispetto a ciò che doveva ancora avvenire. La capacità di comprendere il rischio che la pressione del potere economico (non ancora globalizzato) poteva esercitare sull’attività della giurisdizione. Qualche anno dopo, Giovanni Falcone, nella famosa intervista di Marcelle Padovani, parlava della potenziale globalizzazione dei fenomeni di carattere criminale. Entrambi i casi ci parlano di due intellettuali, e non semplicemente di due magistrati, che anche in ragione del lavoro che svolgono mostrano di avere uno sguardo più lungo di quello che spesso è esercitato da un funzionario pubblico. Io dico che voi avete questo privilegio: la possibilità di intuire, anche attraverso le patologie della società, quello che sta per avvenire. Mettetelo a disposizione della Repubblica, perché questo credo sia il punto fondamentale. Non tanto per improprie solidarietà o peggio improprie condiscendenze, quanto perché c’è da riprogettare la Repubblica, rispetto alla sfida che voi avete messo nel titolo di questo congresso. La sua capacità, appunto di affermare il primato della legge rispetto a quella che va definita per ciò che è, e cioè la “cruda forza selvatica” dell’utile che preme alle porte del giusto.

A questa pressione va dunque data risposta. Anche in termini di efficienza del funzionamento della giustizia. È, anzi, il fine stesso della giustizia a richiedere una misura di efficienza nell’erogazione dei servizi. Ma una democrazia deve poter mirare autonomamente ai propri obiettivi di valore, di libertà, di eguaglianza.

Per questo, occorre che tanto la politica quanto la magistratura si pongano la domanda circa il significato e la forza che l’ossequio alla legge mantiene, in rapporto ai mutamenti economici e sociali che sono sempre più imponenti. Noi non abbiamo mai nella storia dell’umanità registrato concentrazioni di potere e ricchezza come quella che attualmente vive il nostro pianeta. Far valere le ragioni della politica e del diritto diviene quindi sempre più difficile, senza costruire risposte di pari dimensione, di analoga portata. Qui sta la vera sfida che va vinta, che può piacere o meno ma è comune, e a noi si è offerta una strada soltanto: quella della possibilità dell’integrazione europea. Non ce ne è un’altra, in questa fase storica e in questo luogo. Non ce n’è un’altra: l’unico strumento attraverso il quale possiamo provare a contrastare o limitare poteri che passano sopra le teste dei cittadini, e della democrazia, è quello di provare a costruire una giurisdizione sovranazionale e in particolare una giurisdizione di dimensione europea.

Non è facile. Noi abbiamo incontrato nel semestre di presidenza europea continue resistenze. Le stiamo toccando con mano, in particolare in queste settimane, sulla costituzione della Procura europea. Molti paesi dell’Unione si mostrano assai tiepidi, alcuni addirittura esplicitamente contrari. Ma come possiamo pensare di contrastare il terrorismo, la criminalità organizzata, che vanta robusti collegamenti internazionali, come possiamo pensare di disciplinare e di contrastare il traffico di esseri umani, la minaccia alla privacy che parte da soggetti che agiscono su scala globale, senza appunto questi strumenti che prescindono dalla dimensione nazionale?

Abbiamo naturalmente bisogno anche di rafforzare gli strumenti della giurisdizione interna, non vorrei dare l’impressione di parlare d’altro, ma noi spesso ci affanniamo e ci danniamo rispetto a un singolo punto di un singolo articolo di una legge, quando il prototipo che si costruirà a livello europeo inevitabilmente finirà per condizionare l’assetto del nostro ordinamento interno. Pensiamo a quale modello di procura uscirà e come questo inciderà inevitabilmente sull’assetto della giurisdizione nel nostro Paese. Pensiamo, per i civilisti, al fatto che alcune forme di risoluzione delle liti sono già disposte all’interno di direttive per questioni che riguardano la dimensione transfrontaliera: come possiamo pensare allora che nel nostro ordinamento terremmo istituti giuridici diversi da quelli che siamo chiamati ad applicare quando si parla di questioni che hanno una dimensione sovrannazionale è là, io credo, che dobbiamo provare a rivolgere di più lo sguardo.

A me ha colpito molto che nel semestre italiano e anche nei seguenti, nella cronaca di quella vicenda si è scritto su tutto tranne che su questioni come queste che io ritengo incidano e incideranno direttamente nel nostro ordinamento assai più e con più forza del singolo comma e del singolo rigo del provvedimento.

Abbiamo bisogno anche di proseguire un dialogo, che come auspicava il presidente Sabelli, non sia tarato da semplificazioni o da contrapposizioni, su tutti i punti dell’azione di riforma dell’Esecutivo.

Vorrei dire allora che ho sempre considerato e considero l’Anm un interlocutore rappresentativo e essenziale per il governo. Lo penso parlando a nome del Governo e lo penso anche per mia cultura e formazione personale. Io non è che non veda oggi i limiti dei corpi intermedi, ma avverto il fatto che se si superano questi senza costruire altri modelli noi ci ritroviamo semplicemente una società frammentata, incapace di esprimere le proprie domande. E quindi non troverete mai da me una parola che punta alla demolizione del ruolo che chi è chiamato dalla magistratura esercita non senza difficoltà, perché oggi chi rappresenta la magistratura sconta gli stessi problemi che la rappresentanza sconta in generale nel nostro paese.

La riforma avviata non può prescindere dalla trama dei principi costituzionali sui quali poggia saldamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Ho avuto più volte modo di ribadire, ad ogni nuova sollecitazione e da qualunque parte provenisse, che questa trama non è in questione. Forse anche per questo, presidente Sabelli, il tenore dello scontro o del confronto, del conflitto o del dialogo, si pone su un terreno profondamente diverso rispetto al passato. Perché ci sono cose che noi non intendiamo discutere e che non devono essere discusse. La soggezione del giudice soltanto alla legge, la sua amovibilità, l’accesso tramite concorso, l’obbligatorietà dell’azione penale. Questo non può che implicare oggettivamente una qualità diversa del confronto.

Sono consapevole che autonomia e indipendenza hanno però anche una base materiale, e che dunque possono almeno in linea di principio essere compromessi anche lasciando inalterati quei principi, ma toccando semplicemente questa base. Per questo io penso che il rinnovamento dell’assetto organizzativo della giustizia risponde anzitutto a questo tipo di consapevolezza. In questo senso però io credo che dobbiamo tutti essere consapevoli che questo sforzo lo facciamo in una situazione di scarsità di risorse. Questo, a mio avviso, aumenta ancor di più la responsabilità di chi, pur avendo avuto la possibilità, in tempi passati, di fare gli investimenti non li ha fatti. Noi siamo chiamati oggi a rimediare una situazione che si è determinata in più decenni, rispetto alla quale pensare di risalire la china nell’arco di pochi mesi è un’ingenuità, addirittura un’assurdità.

Il più grave tallone d’Achille del sistema giudiziario italiano, almeno dal punto di vista dell’efficienza, rimane a tutt’oggi – io credo – la giustizia civile. Vorrei manifestare però anche una certa soddisfazione. Perché l’altro giorno un magistrato ha rilasciato un’intervista accusando il ministero di destinare eccessiva attenzione alla giustizia civile. Per me questa è la miglior patente del riconoscimento di un obiettivo politico che avevo dal momento in cui mi sono insediato.
Lo diciamo infatti fin dal giorno dell’insediamento di questo governo: dove la giustizia civile non funziona si strappa il perimetro della legge e si rafforza inevitabilmente l’intermediazione criminale.

Le misure adottate in questi mesi hanno dato un sensibile calo dell’arretrato, grazie soprattutto all’avvio di un percorso deflattivo che ha portato ad una riduzione di nuove iscrizioni. Certo, nessun trionfalismo è autorizzato. In questo dato può infatti esserci anche quello preoccupante della fuga dalla giurisdizione. Abbiamo però numeri che possono essere sostenibili rispetto all’impalcatura del sistema.

In questi giorni, ho avviato un viaggio nei tribunali italiani con l’obiettivo di conoscere e individuare difficoltà e criticità. Non è un caso che questo viaggio sia cominciato dal Sud. I dati drammatici sulla realtà economica e sociale del Mezzogiorno si riflettono anche nelle performance dei tribunali, soprattutto nel civile, in termini di un più alto tempo medio di risoluzione delle liti e di un più elevato tasso di pendenze ultratriennale. Questo non vuol dire che non esistano esempi virtuosi, come quello del Tribunale di Marsala, che è riuscito a scalare moltissime posizioni. È un tema che va affrontato con cognizione di causa, senza sbrigative generalizzazioni. Se noi ci fossimo limitati a guardare la classifica, avremmo detto semplicemente che nei tribunali di cui stiamo parlando c’erano cattivi capi degli uffici. Siamo andati là e abbiamo visto che ci sono dei problemi strutturali: non, per esempio, quello dell’organico, perché si tratta spesso di tribunali a pieno organico. Abbiamo verificato ad esempio che c’è un problema molto grave che riguarda la possibilità di utilizzare i MOT per alcuni tipi di funzione e che la scarsa permanenza dei magistrati in alcune realtà non consente una programmazione di aggressione dell’arretrato.

I dati che tuttavia non possono non preoccuparci sono quelli della legge Pinto, che comportano un carico economico assai gravoso per lo Stato italiano. Con i programmi adottati col progetto Strasburgo (se qualcuno, viste le critiche, ha consigli o soluzioni più efficaci e intelligenti, li fornisca) proponiamo questo: piuttosto che buttare via 700 milioni di europer via delle multe, facciamo una norma per la quale i soldi risparmiati possano essere impiegati nella giustizia. Poniamoci per l’obiettivo di evitare questo sperpero di risorse. Discutiamo insieme sul come, ma non rimuoviamo questo dato perché davvero non possiamo permettercelo.

Ridurre la spesa per indennizzi dovuti in base alla legge Pinto determina forti economie per lo Stato, ma comporta insomma la possibilità di aumentare significativamente gli investimenti.

La maggiore disponibilità di mezzi e risorse migliora ovviamente l’erogazione del servizio: di qualunque servizio. Per quanto ci riguarda, abbiamo deciso anzitutto di mettere risorse a sostegno dell’innovazione e della digitalizzazione: sono stati assegnati a Dgsia 147 milioni per il solo 2015, il doppio di quanto avevamo assegnato nel 2014. Altre ingenti risorse già 100 milioni di euro è verranno dai fondi europei (è la prima volta che il ministero della giustizia accede ai fondi strutturali).

Del resto, noi siamo obbligati a raccogliere un’altra sfida importante, rappresentata dal passaggio alla gestione diretta degli uffici giudiziari. Abbiamo bisogno a tale scopo di personale tecnico, di procedere con celerità ad una ricognizione attenta di tutte le situazioni critiche, ivi compresa quella di Bari, per intervenire dove le carenze o la non inidoneità degli spazi rendono difficile l’ordinato esercizio delle attività giurisdizionali. Noi abbiamo smontato un meccanismo perverso dove la scissione fra chi spendeva e chi pagava ha comportato un’irrazionalità dell’utilizzo delle risorse.

Più in generale, vorrei si fosse consapevoli del fatto che le maggiori risorse per il prossimo triennio ammontano, nell’ambito di una progressiva riduzione della spesa pubblica, a 900 milioni di euro. Grazie all’assegnazione del Fondo Unico Giustizia, agli stanziamenti per la copertura delle spese derivanti dalla legge Pinto, alle poste della legge di stabilità e all’attuazione del PON Governance.

Credo sia la prima volta dopo anni che si stanziano risorse così significative. Certo occorrerà del tempo perché si vedano i risultati. Parliamo però di una revisione organizzativa già in corso di realizzazione, non “irrealizzata”.

L’introduzione del Processo Civile Telematico, d’altronde, è stata salutata con favore dalla magistratura associata e si sta rivelando una scelta giusta, come ci confermano ancora una volta i dati: sia avvocati che magistrati utilizzano il PCT ben oltre l’ambito della sua obbligatorietà. Se esigenze specifiche potranno richiedere ancora l’uso del cartaceo, rimane per stabilita la direzione di fondo verso una progressiva dematerializzazione degli atti. Occorre insomma che si prenda atto che la rivoluzione tecnologica in corso va colta come un’opportunità.

Tra i pochi che recalcitrano non ci sono i cancellieri che ho incontrato questa settimana in Calabria, visitando gli uffici giudiziari, i quali anzi hanno mostrato entusiasmo di fronte alle innovazioni: mi è parso un bel segnale, che voglio trasmettervi.

Anche il tema della specializzazione, sia sul piano della formazione che su quello dell’organizzazione è con il nuovo impulso dato al Tribunale delle imprese e l’ipotesi di un Tribunale della famiglia e dei diritti delle persone, che abbia competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia è rappresenta una risposta non superficiale ai cambiamenti della società. E per quanto mi riguarda l’unica rispetto al tema tra economia e giurisdizione. Nel senso che noi non possiamo piegare le ragioni della giurisdizione alle pretese dell’economia. L’unica risposta che dobbiamo dare è che nel momento in cui si costruiscono strumenti sempre più in grado di incidere ed entrare nei processi reali di produzione e di accumulazione è necessario che vi sia a monte una magistratura specializzata. Per questo io ritengo che la più importante riforma di questo tempo, quella che a mio avviso va ulteriormente realizzata, sia una riforma che voi avete voluto, e che insieme abbiamo sostenuto: quella della geografia giudiziaria. Perché senza economia di scala, senza la costruzione di uffici dalle giuste dimensioni, è impossibile produrre alcun tipo di specializzazione.

Di famiglia e di unioni civili si sta discutendo ancora, in queste settimane. Colgo l’occasione per ribadire che vedo con favore la nuova normativa in via di approvazione in Parlamento: mi sembra una risposta che amplia la base di diritti della nostra società, senza togliere diritti ad alcuno. Ed è una risposta che la politica deve dare presto, evitando ancora una volta di rincorrere le decisioni di questo o quel tribunale.

Voglio dirlo perché nella discussione pubblica si tirano spesso in ballo i massimi sistemi, ma si trascura di dire che il nostro Paese è messo in mora dalla giurisdizione internazionale su questo punto. Quindi non si tratta solo di dare una legge per dare dei diritti, ma di adempiere ad una indicazione.

Torno però ai temi del funzionamento della giustizia, per ricordare un altro dato, e qui consentitemi uno sfogo. Io ho messo al primo punto del mio impegno il tema del personale amministrativo. Vi voglio raccontare molto brevemente quello che è successo, perché la vostra insoddisfazione su questo punto è sempre maggiore di ciò che io potrò mai realizzare. Noi lo scorso anno abbiamo dato la possibilità di assumere 1000 persone con concorso, poi si è aperta la questione del personale delle Province. Abbiamo verificato che era più opportuno, anziché fare un nuovo concorso, avviare la mobilità per non favorire esuberi di personale in uscita dalle altre amministrazioni. Cosa molto complicata: bisogna fare graduatorie, ecc.. Tutto però ci saremmo aspettati tranne il fatto che chi non ci dava il nulla osta per il trasferimento erano proprio le province. Nonostante questo, supereremo l’ostacolo e già nelle prossime settimane 500 persone prenderanno posto negli uffici. Entro i prossimi 2 mesi saranno 1.031 persone. Ci sono risorse entro la fine dell’anno per altre 2.000 persone e nella legge di stabilità sono previste le risorse per altre 1.000 persone in mobilità. Stiamo parlando complessivamente di 4.000 persone, circa la metà dei vuoti di organico che attualmente interessano le cancellerie.

Ora, io non mi aspettavo una standing ovation, ma neanche che su di me ricadesse la responsabilità del fatto che si sono accumulati vuoti di organico per 9.000 persone nel corso di questi anni. E lo dico perché talvolta è più semplice gestire un rassegnato declino che non provare a rimettere in piedi il malato. Finché si perdevano 1.000 posti all’anno tutti si lamentavano in modo equamente distribuito e democratico, nel momento in cui abbiamo cominciato ad avere qualche risorsa, allora ecco che ci sono i dipendenti che non hanno avuto la riqualificazione, quelli che hanno vinto il concorso e aspettano lo scorrimento delle graduatorie in altre amministrazioni, quelli che nelle province rischiano di restare a spasso, i tirocinanti che sono stati negli uffici a cui hanno dedicato molti anni, e così via. Abbiamo dovuto mettere insieme tutti questi fattori: lo abbiamo fatto. C’è un bando che selezionerà 1.500 tirocinanti per avviare l’ufficio del processo, c’è la mobilità di cui vi ho parlato e inizierà anche un percorso di riqualificazione del personale amministrativo del comparto giustizia. È a mio avviso il più imponente intervento sul tema dell’organizzazione dagli ultimi 20 anni. Non voglio fare della gratuita propaganda ma se qualcuno è in grado di mostrare il contrario me lo dica. Certo, tutto va gestito con grande pazienza e con grande capacità di affrontare passaggi complessi. Perché si tratta di riqualificare persone, di cambiare abitudini: per questo chiedo collaborazione non solo ai capi degli uffici, ma a tutti i magistrati che in qualche modo sono e possono essere parte attiva di questo cambiamento.

Veniamo, comunque, da anni in cui le sole parole d’ordine erano razionalizzazione, contenimento e riqualificazione della spesa, spending review. Il processo di efficientamento del sistema deve proseguire, ma cominciamo anche a liberare qualche risorsa in più. Non mi pare un fatto trascurabile.

L’attenzione che abbiamo posto ai temi dell’organizzazione della giustizia continua, dunque, in uno spirito che deve essere di piena collaborazione sia con il mondo accademico, che con la magistratura e con l’avvocatura.

Ed è questo spirito che anima i lavori delle due commissioni di studio istituite lo scorso 12 agosto, per predisporre l’una progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario, l’altra di riforma del CSM, tenendo conto delle linee indicate dallo stesso Consiglio. Il dibattito si incentra sul sistema elettorale, per evitare le degenerazioni correntizie ma per preservare il pluralismo, su un sistema disciplinare rigoroso ma senza formalismi, sulle modalità di un efficiente funzionamento dell’organo di autogoverno. Vorrei ringraziare, a questo proposito, per la collaborazione che mi ha assicurato, il vicepresidente Legnini e tutti coloro che sono stati chiamati a condurre questa riflessione.

Non vorrei però che l’attenzione ai temi organizzativi oscuri un punto fondamentale: che cioè l’esercizio della giurisdizione rimane materia fondamentale, che tocca i diritti e le libertà. Lo stesso valore della legalità e della certezza del diritto, che riconosciamo come decisivo per porre rimedio al deficit competitivo del nostro Paese, rimane un valore etico-giuridico-politico, ancor prima che economico. Capisco anche e sono perfettamente consapevole del rischio di una burocratizzazione del ruolo del magistrato, magari proprio in nome dell’efficienza, o della standardizzazione e delle informatizzazione delle procedure. Ma questo rischio si evita soltanto progettando insieme il sistema, non si evita semplicemente in un rapporto antinomico tra ministero e uffici.

Consentitemi però di dire, a questo riguardo, che questa consapevolezza non è mai mancata, neanche quando abbiamo approvato la legge sulla responsabilità civile, che costituisce un necessario ma anche indispensabile strumento per la tutela dei cittadini, in linea con le raccomandazioni europee.

La legge, io credo, è sufficientemente equilibrata perché non venga vissuta come espressione di un intento punitivo, neppure però come una vuota grida manzoniana. Dopodiché abbiamo sempre detto che è una buona regola sottoporre le misure normative ad un tagliando, cosa che faremo anche con questa legge, per capire effettivamente come va.

Ma si è detto nei mesi scorsi che questa legge dimostrerebbe che la magistratura è sotto attacco. Che la politica reagisce alle inchieste che la mettono sotto tiro mettendo sotto tiro i magistrati. Ora, io penso che non vi è nulla di più lontano dal vero di questa rappresentazione, particolarmente nella fase attuale. E lo voglio dire perché non credo che ci sia nessuna inchiesta tra tutte quelle che abbiamo visto, anche le più discutibili, che sia stata segnata dalla cifra della negligenza inescusabile, che è il parametro secondo il quale viene valutata eventualmente la responsabilità dei magistrati. E lo voglio dire perché vorrei fare riferimento al ragionamento che facevo all’inizio. Interrogandomi e interrogandoci se questa esigenza di regolamentare sempre di più sia solo il frutto di una volontà di vendetta della politica, o corrisponda a una domanda che oggi è presente nella società e che pone il tema di una diffidenza nei confronti delle Istituzioni. Una domanda alla quale non possiamo rispondere solo con una scrollata di spalle, ma dando regole che rendano più trasparente e controllabile l’esercizio di tutti i poteri. Io l’ho detto oggi in una dichiarazione: non fate l’errore che a suo tempo fece la politica, non pensate che sia in corso un tentativo di delegittimazione, magari orchestrato da qualche complottista, perché quell’errore è costato tantissimo alla politica. Ecco: non pensate che tutti quelli che pongono una questione sul funzionamento, che fanno critiche al funzionamento della magistratura lo facciano perché sono avversari della magistratura. E reagite, come io credo si debba in questa fase, provando a fare la riflessione che avete iniziato a fare, cioè discutere su come si accettano le sfide che stanno di fronte a noi. Lo dico perché la vedo come l’unica possibilità di partecipare a quel processo di rifondazione della Repubblica, che senza la magistratura non si può realizzare.

Né il potere politico né l’ordine giudiziario né la società italiana nel suo complesso hanno bisogno oggi di esasperare i motivi di conflittualità. Abbiamo tutti motivo di ritenere che si può fare di più e meglio, ma sono convinto che convenga soprattutto individuare il punto dal quale occorre ricominciare a cimentarsi. A mio modo di vedere, cioè, è anzitutto essenziale il ristabilirsi di un clima di fiducia nelle classi dirigenti del Paese. E questo occorre farlo insieme; occorre recuperare insieme, tutti insieme, credibilità ed efficienza.

Sulla bella rivista della vostra Associazione, ho letto il più recente contributo dedicato al tema della corruzione. Vi viene presentata l’esperienza degli anni Novanta e quella di questi anni. Vi si dice che vi è una questione corruzione legata tanto al finanziamento della politica, sul versante istituzionale, quanto al tema della trasparenza contabile e finanziaria. Mi pare però che vi viene anche indicata un’inversione di tendenza e cioè la legge Severino, e gli strumenti di prevenzione da questa introdotti. Abbiamo quindi ulteriormente rafforzato tale inversione di tendenza con la legge 114/2014 e con l’ampliamento dei poteri dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Questa stessa valutazione corrisponde a quella dell’Ufficio contro il crimine dell’Onu che qualche settimana fa si è espresso in questo senso rispetto agli sforzi normativi che sono stati fatti nel nostro Paese.

Anche sul versante sanzionatorio, con l’introduzione del reato di autoriciclaggio e del falso in bilancio, con la rafforzata disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione, credo abbiamo fatto un passo in avanti. Se c’è una cosa, l’ho già detto al presidente Sabelli, che lamento nella sua relazione è il fatto che si sia dimenticata una questione che io credo cruciale, anche per misurare quel tema che avete messo al centro della vostra discussione: il rapporto tra diritto ed economia, tra giurisdizione ed economia. Mi riferisco all’approvazione dei reati ambientali. Voi non sapete, o forse lo sapete, quante e quali sono state le resistenze che abbiamo incontrato. Io credo che quella sia stata una bella prova di autonomia della politica e un modo attraverso il quale rafforzare la giurisdizione. Il fatto che quel tema non entri nella nostra discussione io credo sia il segno del fatto che ancora non è centrale sino in fondo il tema del rapporto fra democrazia ed economia.

Certo, altri segnali ancora vanno dati. È vero per esempio che manca una disciplina organica di regolamentazione dell’attività delle lobbies. Questa è una materia che va ripresa e disciplinata, ed è un intervento che si può fare, sul quale non è giustificata un’ulteriore inerzia da parte del Parlamento.

Sono certo, peraltro, che anche la magistratura saprà dare segnali chiari e inequivocabili, anche rispetto a recenti gravi fatti finora emersi nella realtà siciliana.

Per parte nostra, siamo intervenuti prima che avvenisse questa vicenda, introducendo criteri di trasparenza e rotazione nell’affidamento degli incarichi, introducendo criteri di proporzione nella liquidazione dei relativi compensi. Sono davvero rammaricato del fatto che le uniche critiche, oltre che dagli amministratori che chiaramente non erano contenti del fatto che gli riducevamo i compensi, siano venute proprio da alcuni magistrati che ci hanno accusato di voler indebolire la lotta alla criminalità organizzata. Come se invece la vicenda di Palermo la rafforzasse.

Trovo altrettanto incomprensibile e ingeneroso che su talune questioni si alimenti un dibattito mediatico che non aiuta a migliorare il profilo complessivo del sistema della giustizia, e forse anzi gli reca danno. È, infatti, non solo falso, ma anche privo di senso chiedersi se siano dedicate più energie al tema delle intercettazioni o alla lotta alla criminalità organizzata: non solo perché l’azione di contrasto alle mafie è condotta e continua ad esserlo senza risparmio dallo Stato, ma perché essa non viene minimamente indebolita dalla delega sulle intercettazioni. Io ho voluto ricordare in queste ore un punto mai ricordato di quella delega (di cui si potrà discutere finché si vuole e ne discuteremo: dentro quella commissione ci saranno magistrati e non sarà una scelta unilaterale della politica): la semplificazione delle modalità di autorizzazione delle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.

Ho più volte ribadito, inoltre, che uno dei punti di partenza e di riflessione saranno anche le proposte che sono venute nel corso degli anni scorsi dalla Federazione nazionale della stampa, anche a fugare qualunque ipotesi di interpretazione di questo intervento come la volontà di restringere il diritto all’informazione.

Piuttosto – visto che siamo in una discussione franca – mi aspetto anche da parte della magistratura associata un po’ più di attenzione e sostegno nel percorso che abbiamo avviato con gli Stati generali dell’esecuzione penale, in vista della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mi spiace che di carceri non si ragioni più dal momento in cui si è superata la triste situazione del sovraffollamento. E non lo dico dal punto di vista di chi ha dato qualche contributo ad andare in questa direzione, ma dal punto di vista vostro. Noi abbiamo un sistema dell’esecuzione penale che è tra i più cari in Europa e che ha il più alto tasso di recidiva. Voi lavorate per mandare della gente in galera che quando esce è peggio di quando vi è entrata: credo che questo sia un elemento di frustrazione che dovremmo affrontare tutti insieme, anche in questo caso insieme. Perché una volta superata la situazione di sovraffollamento non abbiamo risolto il tema del modello attraverso il quale avviene la detenzione, che nel nostro Paese è un modello passivizzante, carcerocentrico, che finisce per perpetuare le gerarchie criminali che si realizzano all’esterno del carcere stesso. In questo io credo che una discussione seria, ampia – anche dei costi/benefici, senza approcci ideologici, e nel confronto fra questo e altri sistemi a livello europeo – io credo che debba essere fatta. Anche per fronteggiare quel populismo penale contro il quale il presidente Sabelli ha speso parole importanti nei mesi scorsi. Ma che va sconfitto non semplicemente con una discussione fra addetti ai lavori, ma parlando alla società italiana. Cercando di confinare in un angolo gli imprenditori della paura. Cercando di mettere in un angolo quelli che “bisogna buttare via la chiave”. Senza considerare il fatto che la nostra Costituzione dice, non per caso, una cosa abbastanza diversa.

Abbiamo peraltro abbastanza esperienza per domandarci se sia davvero utile tenere sempre alta l’asticella dello scontro o se non sia invece necessaria una certa duttilità, non certo sui principi, ma sulle soluzioni che possano essere trovate e che ci stiamo sforzando di trovare.

Noi abbiamo avuto in verità anche stagioni in cui l’ordine giudiziario era fin troppo piegato agli interessi del potere politico. Negli anni cinquanta e sessanta c’è stata qualche acquiescenza di troppo, o forse anche solo troppo conformismo culturale. Perciò dico: è stata dolorosamente essenziale la stagione successiva, in cui i magistrati hanno anche pagato gravissimi tributi di sangue per difendere l’autorità dello Stato e il rispetto della legge.

E anche quando, in un mutato clima politico, sia nazionale che internazionale, la magistratura è stata indubbiamente protagonista di una fase profonda di rinnovamento delle istituzioni di questo Paese, considero il suo contributo largamente positivo e meritorio.

Ho voluto ricordare in qualche modo questo ruolo affiggendo nell’atrio del Ministero della Giustizia di via Arenula i nomi dei magistrati caduti nella lotta di liberazione, a segno del fatto che nella costruzione della nostra Repubblica, nel sangue versato, c’è quel contributo. Ci deve essere oggi nella fase in cui siamo chiamati a cambiare.

Questa che stiamo cercando di attuare non è dunque una contro-riforma e neppure una “affrettata normalizzazione”: questi giudizi sono largamente ingenerosi, e, se mi è consentito, anche un po’ datati. Appartengono, credo, ad un’altra stagione.

Parlando di riforma della giustizia, Livatino diceva che non può farla una minoranza, anche se qualificata o competente. Lo penso anche io: bisogna provare a farla tutti insieme, con il più ampio consenso, non solo tra le forze politiche. Io ho cercato di dialogare con tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Ma noi dobbiamo ributtare questa discussione nel cuore della società italiana. Non stiamo discutendo di principi incardinati per garantire uno status quo fine a se stesso: l’indipendenza della magistratura è il presupposto per un sistema di garanzie fondamentali. Difendere l’indipendenza della magistratura non è difendere un privilegio o una prerogativa: è difendere quel sistema di garanzie. E questo deve diventare patrimonio più largo del Paese, in un Paese nel quale il tema delle garanzie è scomparso e la rappresentazione appunto di questa conflittualità tra interessi diversi rischia di disorientare l’opinione pubblica. Noi dobbiamo tornare a far parlare della riforma della giustizia anche molto oltre la cerchia degli addetti ai lavori.

Se in questo processo è richiesto un certo sforzo, se la magistratura prova una certa fatica, non credo solo che dipenda da attacchi o ingerenze, ma dai cambiamenti che sono necessari. Ma voi pensate veramente, con il minimo storico di credibilità che ha raggiunto la politica del nostro Paese, che l’eventuale vostra delegittimazione dipenda soltanto dalla dichiarazione di qualche esponente politico? Semmai a volte potrebbe sortire l’effetto esattamente contrario. Anzi, negli anni scorsi questo è avvenuto frequentemente. Il punto fondamentale è capire quali sono le ragioni strutturali di questa crisi e di questa difficoltà, che non state vivendo voi, ma che stanno vivendo le istituzioni. E in questo cambiamento, se è vero che siamo nella società che cambia, è la tensione che corpi intermedi e istituzioni provano, è la vostra fatica insomma, è la fatica di una società che è chiamata a cambiare.

Troppo spesso, nelle fasi di cambiamento, si guarda solo a ciò che finisce, e non anche a ciò che si inizia a intravedere. Ma il cambiamento riguarda tutti. Consentitemi una citazione che può sembrare irrituale, ma leggendo in questi giorni mi è capitata tra le mani. Pietro Ingrao – che con una parte della magistratura dialogò fortemente, che è scomparso quest’anno e che voglio ricordare con grande affetto – a chi gli chiedeva perché si occupasse di poesia rispose una volta con queste parole: “Non chiedo ai politici di cambiare mestiere. Penso però che tutti debbano accorgersi che il linguaggio politico non ha più la capacità di definire le cose che sono in movimento”. Ecco, mi sembra una critica importante, che ci spinge a cercare parole nuove, non però a respingere il cambiamento. Se le nostre parole non bastano più, troviamo delle nuove parole con tutta la fatica che comporta costruire queste parole.

Questo spirito critico e autocritico mi auguro allora sia patrimonio di tutti, com’è giusto che sia, in uno stato democratico di diritto, fondato sull’essenziale divisione dei poteri. Ma su questo sono sicuro che la pensiamo allo stesso modo.

Voglio rivolgere un appello conclusivo sull’ultimo punto. Io non lo dico per ossequio a questa sede, io credo davvero che sia impossibile una trasformazione del Paese senza un vostro ruolo attivo, senza la vostra passione civile, senza il vostro impegno. Non vi chiamo in un campo che non è il vostro: il vostro impegno e la vostra passione civile voi la mettete esercitando la giurisdizione. Ma vi chiedo di riconquistare una visione d’insieme, una visione nazionale e una visione sovranazionale, di guardare ai cambiamenti in atto non soltanto nell’ottica del punto di vista dell’ufficio che voi attualmente svolgete, ma di come il vostro ufficio interagisce con una dimensione più ampia che sta cambiando. Guardate, non è la condizione perché voi possiate stare meglio: È la condizione perché possa star meglio questo Paese. Perché se non c’è questa attitudine non pagherete voi il prezzo, forse non lo pagherò neanche io: rischiamo però di costruire una trasformazione più povera, perché priva – per le ragioni che ho detto, per il ruolo che avete svolto e per il ruolo che state svolgendo anche in questo momento nel nostro Paese – di un punto di vista fondamentale per il cambiamento.

Andrea Orlando
Ministro della Giustizia

Immagine di huffingtonpost.it

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