Sentenze

Tribunale di Verona, Sez. lavoro – Sentenza n. 380/2015 del 31.7.2015 (Dott. Cucchetto)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Verona
Sezione Lavoro

nella persona del Giudice dott. Marco Cucchetto, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di lavoro promossa con ricorso depositato in data 7.2.2012

DA

B.S., comparsa in causa a mezzo dell’avv. A. V. per mandato a margine del ricorso ed elettivamente domiciliata presso lo studio dello stesso in Verona,

CONTRO

L. AZZURRO DI G.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, comparsa in causa a mezzo degli avv.ti L. M. e A. C. per mandato in calce al ricorso notificato ed elettivamente domiciliata presso lo studio della prima in Legnago (VR), (con rinuncia al mandato in data 20.6.13)

OGGETTO: impugnazione licenziamento – reintegra
UDIENZA DI DISCUSSIONE: 29.5.2015
CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE:
In via principale:

dichiararsi la nullità/illegittimità/inefficacia del licenziamento intervenuto con lettera del 13.5.2010;
ordinare alla resistente l’immediata reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 L. 20.5.1970 n. 300 (come modificato dall’art. 1 L. 108/90);

condannare l’impresa di pulizia L. AZZURRO di G.C. al pagamento in favore della ricorrente di tutte le retribuzioni, incluse eventuali maggiorazioni o aumenti, dal licenziamento alla reintegra sulla base della retribuzione mensile e/o al risarcimento del danno subito dalla ricorrente in misura pari alle mensilità di retribuzione maturate dal licenziamento alla reintegra;

In via subordinata:
dichiararsi la nullità/illegittimità/inefficacia del licenziamento intervenuto con lettera del 13.5.2010;
ordinare alla convenuta, ai sensi dell’art. 8 L. 604/66 (così come modificato dall’art. 2 L. 108/90), di riassumere la ricorrente nel termine di tre giorni, riconducibile al VI livello del CCNL servizi di pulizie – aziende artigiane, o del diverso inquadramento accertato in corso di causa o ritenuto di giustizia, a far data dal 13.5.2010 o dal diverso periodo accertato in corso di causa o ritenuta di giustizia o, in mancanza, al risarcimento del danno da individuare con i criteri di cui allo stesso articolo sulla base della retribuzione mensile;

In ogni caso:
condannare la società resistente al pagamento in favore della ricorrente della somma di € 18.962,77 a titolo di differenze retributive, per le ore di lavoro prestate in più rispetto a quelle denunciate, o a quella maggiore o minor somma che sarà ritenuta di giustizia, oltre rivalutazione e interessi dalla data di maturazione dei singoli ratei al saldo effettivo;
condannare l’impresa di pulizia L. AZZURRO di G.C., in persona dell’omonima titolare, di pagare in favore della ricorrente la somma di € 5.400,00 a titolo di rimborso spese per il rifornimento della benzina, oltre che € 2.700,00 per aver quest’ultima utilizzato durante l’intero rapporto di lavoro la propria autovettura;

Condannare l’impresa di pulizia L. AZZURRO di G.C., in persona dell’omonima titolare di pagare in favore della ricorrente una somma pari ad € 500,00 o a quella ritenuta di giustizia, a titolo di risarcimento danni, per l’utilizzo e l’usura delle proprie scarpe durante la svolgimento dell’attività lavorativa;

condannare l’impresa di pulizia L. AZZURRO di G.C., in persona dell’omonima titolare al pagamento in favore della ricorrente di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa come disposto dall’art. 46 del D. lgs. l0 settembre 2003 n. 276;

condannare l’impresa di pulizia L. AZZURRO di G.C., in persona dell’omonima titolare alla regolarizzazione della posizione contributivo previdenziale della lavoratrice;

con vittoria di spese, diritti ed onorari, rimborso forfetario 12,5% IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore che si dichiara antistatario.

CONCLUSIONI DI PARTE CONVENUTA:

In via preliminare: si eccepisce la decadenza di controparte dall’azione di illegittimità/nullità/inefficacia del recesso per mancata tempestiva impugnazione del provvedimento di licenziamento nei termini previsti dalla legge.

Nel merito, in via principale: previo accertamento dei fatti in narrativa del presente atto, dichiararsi la legittimità/validità/efficacia del licenziamento del 13.5.10 e rigettarsi l’avversa domanda di dichiarazione della nullità/illegittimità/inefficacia del licenziamento del 13.5.10 e per l’effetto rigettarsi integralmente ogni richiesta risarcitoria avanzata da parte ricorrente e precisamente sia quella avanzata sub 2 (di immediata reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 L. 300/70) e sub 3 (di condanna della convenuta al pagamento di tutte le retribuzioni dal licenziamento alla reintegra e/o al risarcimento del danno in misura corrispondente), sia quella sub 5 (di riassunzione della ricorrente o di condanna della convenuta al risarcimento del danno), in quanto tutte inammissibili ed infondate sia in fatto che in diritto.

Nel merito, in via subordinata:
nella davvero non creduta ipotesi in cui venisse dichiarata l’illegittimità/nullità/inefficacia del provvedimento espulsivo impugnato, stante l’inapplicabilità dell’art. 18 L. 300/70 per evidenti limiti dimensionali,
ricondursi la pretesa economica al dettato di cui all’art. 8 L. n. 604/66, così come sostituito dall’art. 2 L. 108/1990 riducendosi l’ammontare richiesto, in relazione alle eccezioni svolte, alla minor somma prevista per legge anche in ragione della durata relativamente breve del rapporto di lavoro intercorso e sottraendo in ogni caso le somme, gli emolumenti o gli stipendi che la ricorrente abbia ricevuto o avrebbe potuto percepire da terzi, secondo l’ordinaria diligenza nel periodo intercorso (aliunde perceptum).

Nel merito, in ogni caso:
rigettarsi la pretesa di parte ricorrente alla corresponsione delle differenze retributive che sarebbero maturate a titolo di lavoro straordinario/supplementare per l’importo di € 18.962,77 e alla connessa regolarizzazione della posizione contributivo previdenziale della stessa, perchè infondata in fatto e in diritto e che carente di prova.
Rigettarsi la pretesa di parte ricorrente al risarcimento degli ulteriori danni richiesti (ovvero per l’importo di € 5.400,00 a titolo di rimborso spese per il rifornimento della benzina, € 2.700,00 per utilizzo dell’autovettura, € 500,00 a titolo di risarcimento danni per l’utilizzo e l’usura di scarpe di appartenenza della ricorrente, oltre all’ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno da liquidarsi con valutazione equitativa ex art. 46 del D. lgs. 10 settembre 2003, n. 276) in quanto inammissibile e comunque infondata.

Condannarsi la ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 7.2.12 B.S. ha impugnato il licenziamento comminatole per giustificato motivo oggettivo con missiva del 13.5.10 (doc. 7 ric.), deducendone l’illegittimità per insussistenza del motivo addotto.

In punto di fatto esponeva di aver lavorato in favore della ditta L. AZZURRO di G.C. in forza di contratto a tempo determinato dal 10.3.08 al 10.6.08, poi prorogato fino al 10.9.08 e da quella data trasformato in contratto a tempo indeterminato su orario di 28 ore settimanali: agiva in giudizio ai fini dell’accertamento della illegittimità/inefficacia del licenziamento oltre che ai fini della condanna dell’impresa convenuta al pagamento della somma: 1) di € 18.962,77 a titolo di differenze retributive maturate per ore supplementari e straordinarie svolte a fronte dell’impegno effettivo lavorativo corrispondente ad almeno otto ore giornaliere tutti i giorni della settimana; 2) di € 5.400,00 a titolo di rimborso spese per il rifornimento della benzina;

3) di € 2.700,00 per l’utilizzo dell’auto propria per gli spostamenti; 4) di € 500 per l’utilizzo e l’usura delle proprie scarpe durante lo svolgimento della prestazione lavorativa ed infine di una ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno da liquidarsi con valutazione equitativa ai sensi dell’art. 46 d.lgs. 276/2003.

Si costituiva la convenuta con memoria difensiva 15.6.12 negando le circostanze fattuali poste a fondamento del ricorso e ribadendo la legittimità del licenziamento e la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di natura economicamente rilevante a mente dell’art.3 L.604/66 quale reale motivo del licenziamento; la società resistente difendeva poi la adozione dei criteri di scelta alla luce dei criteri di anzianità e della sostanziale fungibilità ed omogeneità delle prestazioni della ricorrente rispetto agli altri dipendenti.

Alla prima udienza 27.6.12 il tentativo di conciliazione dava esito negativo e le parti insistevano nelle richieste istruttorie: il giudice ammetteva alcuni capitoli di prova articolati dalla parte ricorrente e dalla parte resistente rinviando per l’assunzione della prova all’udienza del 14.6.13, che peraltro non veniva chiamata per trasferimento del precedente magistrato assegnatario del procedimento; il ruolo veniva “congelato” in attesa dell’arrivo del nuovo giudice, che prendeva possesso in data 18.8.14.

All’udienza “rifissata” per il 4.2.15 venivano escussi i testi di parte ricorrente Rossetto Tiziana, Bellotto Lenapaola e Priuli Dolores laddove veniva dichiarata decaduta dalla prova la parte resistente che non aveva citato i testi per l’udienza e neppure si era presentata.

All’esito il giudice, ritenendo matura la causa per la decisione, rinviava per la discussione, con termine per note difensive, all’udienza del 29.5.15 nella quale la parte ricorrente, unica presente, invitata alla discussione, concludeva come in epigrafe e la causa veniva discussa oralmente e decisa con riserva di motivazione.

Il ricorso è fondato nei termini che seguono.

Preliminarmente deve reputarsi infondata l’eccezione di decadenza dall’impugnazione giudiziale del licenziamento sollevata da parte resistente.

L’art. 6 legge 604/66 prevede che l’impugnazione del licenziamento, che deve avvenire nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni (termine applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto di causa e ridotto a centoottanta giorni per i licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della legge 92/2012), dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.

La L. 4 novembre 2010, n. 183, come modificata dal D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, ha poi disposto (con l’art. 32, comma 1 -bis) che “In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”.

Pertanto, alla luce di tale disposizione (cd. Milleproroghe), il termine di 60 giorni per impugnare il licenziamento e il successivo termine di 270 giorni (oggi 180) per proporre l’azione giudiziaria o per richiedere il tentativo di conciliazione decorrono dall’1.1.2012, con la conseguenza che alla data del 7.2.2012 di deposito del ricorso in cancelleria non erano ancora spirati i predetti termini.

Com’è noto, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento sussiste, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, in quei casi in cui, per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, sussista l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto di lavoro. In altri termini, la necessità di procedere alla soppressione del posto di lavoro ovvero del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, può derivare sia da una effettiva contrazione della produzione e dal conseguente ridimensionamento dell’attività aziendale, sia da una scelta dell’imprenditore di riorganizzazione/ristrutturazione dell’attività aziendale.

Come pacificamente riconosciuto in giurisprudenza, “nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l’ipotesi del riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall’imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un’effettiva necessità di riduzione dei costi. Tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite” (cfr. Cass. 21282/2006).

Ai fini della configurabilità della fattispecie della soppressione del posto di lavoro non è, quindi, necessario che vengano soppresse tutte le mansioni attribuite al lavoratore, ben potendo le stesse mansioni essere diversamente ripartite secondo scelte dell’imprenditore sottratte al sindacato del giudice (cfr. Cass. 12037/2003).

Ciò che, tuttavia, rileva ai fini della legittimità della scelta datoriale è la condizione della comprovata impossibilità di utilizzare diversamente il lavoratore licenziato, nonchè la condizione del rispetto dei principi di correttezza ex art. 1175 c.c. nella scelta del lavoratore da licenziare. In particolare ai fini dell’individuazione tra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità, trovano applicazione analogica i criteri di cui all’art. 5 della legge n. 223 del 1991, quali i carichi di famiglia e l’anzianità di servizio.

In proposito si sottolinea come l’immunità dal controllo giurisdizionale delle strategie d’impresa invocate a motivo di licenziamento, fatte salve la verifica dell’effettività delle ragioni addotte e del nesso di causalità con la misura espulsiva, trova proprio sul terreno del cd. “repechage” il suo più marcato contrappeso, gravando sull’imprenditore recedente l’obbligo di dimostrare di avere fatto tutto il possibile per ricollocare altrove il lavoratore privato del posto soppresso, ma di non esservi riuscito per effettiva impossibilità di una diversa utilizzazione dello stesso in altro posto equivalente che egli sarebbe stato in grado di ricoprire, desumibile dalla correlativa indisponibilità al tempo del licenziamento ovvero dalla mancanza di assunzioni mirate entro un arco di tempo ragionevole. L’onere probatorio relativo all’elemento in parola, concernendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o il fatto che dopo il licenziamento – e per un congruo periodo – non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica.

Sotto il profilo dell’onere della prova, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro non solo dimostrare che il licenziamento è stato determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, ma anche dimostrare l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in mansioni compatibili con la qualifica rivestita (cfr. Cass. 12769/2005).

Nel caso in scrutinio parte resistente non ha assolto all’onere probatorio in relazione a tutti i presupposti, come sopra richiamati, di (controllo della) legittimità del licenziamento intimato per GMO ex art.3 L. 604/66.

Deve sul punto rilevarsi la totale mancanza di prova sul punto avendo omesso di presentarsi la convenuta, finanche solamente a mezzo di procuratore, sia all’udienza 4.2.15 – benchè ritualmente avvisata – sia all’udienza di discussione 29.5.15.

Alla luce della corretta decisione di dichiarare decaduta la pare convenuta dalle richieste di prova – lo si ripete: pacificamente gravata del relativo onere probatorio – rileva il giudicante che nel caso di specie, non è stata provata la fondatezza delle ragioni addotte dalla convenuta a fondamento del provvedimento espulsivo sia in punto “insussistenza dei motivi addotti” sia, e soprattutto, in punto “violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare”.

Il licenziamento irrogato alla dipendente appare quindi illegittimo, non solo perchè non è stata accertata l’esistenza del giustificato motivo oggettivo del recesso – apprezzandosi, anzi, dagli atti istruttori significativi elementi di segno contrario: “…E ricordo che, dopo che era stata licenziata la Bologna, era venuta una signora che si chiamava Vania da Bovolone e che faceva le stesse cose che prima faceva Stefania”: così la teste Rossetto; “Ricordo che ad un certo punto la B.S. era stata licenziata e ricordo che era stata assunta un’altra persona al suo posto, non so se la Vania di cui parlavo prima o una rumena che era pure stata assunta in quel periodo”: teste Priuli – ma anche in quanto contrario ai principi di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare essendo rimaste le allegazioni della società resistente in merito al rispetto dei dedotti criteri sul piano meramente assertivo in mancanza di un apprezzabile sostegno probatorio che era stato inizialmente “ventilato” seppure poi concretamente non offerto.

Ne consegue la illegittimità del licenziamento anche per violazione del principio di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare.

Non è contestato che la convenuta occupasse al tempo del licenziamento un numero di dipendenti inferiore a quindici ed il rapporto di lavoro deve ritenersi assistito dalla c.d. tutela obbligatoria ex lege n. 604/66.

Per tutte le ragioni esposte il licenziamento appare illegittimo e la resistente deve essere condannata al risarcimento del danno da quantificarsi nella misura delle sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (v. busta paga maggio 2010: doc. 5 ric.), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, attesa la natura delle parti, il dato dimensionale dell’azienda, la durata del rapporto di lavoro ed il comportamento tenuto dalle parti medesime anche in sede conciliativa.

Venendo all’esame della domanda di pagamento delle differenze retributive deve osservarsi come il rapporto di lavoro a tempo indeterminato dovesse reputarsi “a tempo pieno”. Infatti, pur essendo stata assunta con un contratto di lavoro a 28 ore a settimana, la ricorrente ha dimostrato che ella, alla stessa stregua delle altre sue colleghe, svolgeva un orario di lavoro non inferiore alle 48 ore settimanali, distribuito su sette giorni alla settimana, attesa la pluralità di cantieri ove svolgeva le pulizie e considerati anche i tempi di percorrenza del tragitto da un cantiere all’altro, peraltro quasi sempre a bordo della propria vettura e con spese di carburante a proprio carico.

Le testi escusse sul punto hanno, infatti, univocamente e convincentemente prospettato un impegno lavorativo davvero “assorbente”.

La teste Rossetto ha così ricostruito con dovizia di particolari gli orari, gli spostamenti e le concrete modalità operative: “B.S. è stata mia collega di lavoro negli anni 2009-2010 presso la ditta resistente. Ci occupavamo delle stesse mansioni. Né io né la ricorrente avevamo ricevuto le scarpe antinfortunistiche e abbiamo usato le nostre scarpe da ginnastica. Non avevamo né guanti né mascherine. Queste ultime è andata a comprarle la titolare dopo che aveva ricevuto un richiamo da parte dei vigili. La B.S. lavorava, come me, tutti i giorni dal lunedì alla domenica dalle ore 8:30 alle 11:30 e poi avevamo dei cantieri dove dovevamo essere presenti nel pomeriggio ad orari fissi; a volte ci facevamo stare anche la pulizia di scale condominiali, vetri. Si trattava di cantieri situati in Bressana, Cologna veneta, Cà di David, Vigasio, Buttapietra. A volte ci spostavamo col furgone della ditta e ho sempre pagato io il diesel anche se la titolare mi ridava 57 euro al mese, ma non tutti i mesi. La B.S. non aveva mai dati i soldi per il carburante però utilizzava spesso la sua macchina. Era una di quelle piccoline che si guidano senza patente. Preciso che lei aveva dei cantieri nei quali lavorava da sola e poi io la raggiungevo e facevamo altri cantieri assieme. Qualche volta, specie al sabato, la B.S. veniva con noi in furgone. Dunque al giorno facevamo entrambe più di otto ore. Dovevano essere circa dieci ore al giorno. Qualche volta nove ore al giorno. Ma mai meno di otto…”.

Anche la teste Bellotto era stata collega della B.S.nel corso dell’anno 2009 ed ha sostanzialmente confermato i dati: “Ho lavorato nell’anno 2009 per la ditta resistente. Per un mese non in regola. E per sei mesi in regola. E la B.S. era mia collega di lavoro con le stesse mansioni. Le scarpe antinfortunistiche qualche volta ce le siamo comprate noi anche perchè se non ci fondeva la suola ad utilizzare gli acidi per la pulizia. Capitava di fare orari di lavoro anche iniziando alle 4.30 del mattino e ci spostavamo in vari cantieri, con i mezzi nostri o col furgone della ditta ma ci toccava mettere gasolio e poi la titolare ci dava qualche volta un piccolo rimborso. Una o due volte la titolare mi ha ridato circa 50 euro ed altre due volte le ha date alla Tiziana. Alla B.S.non ridava mai nulla. Lei si spostava con una macchina piccola gialla di quelle che si guidano senza patente. Non c’era giorno di riposo settimanale. Lavoravamo sette giorni su sette e qualche volta è capitato che la sera prima la titolare ci dicesse che il giorno seguente era di riposo, cosa che capitava ogni sette/dieci giorni a sua discrezione. Anche i luoghi di lavoro ci venivano indicati, talvolta all’ultimo momento, dalla titolare a sua discrezione. La Stefania l’ho vista lavorare alle Acque Veronesi a Porto di Legnago, alla Valvosacco in un paese lontanino a Forette di Vigasio. Al Bingo di Nogara. Ricordo che una volta la B.S. era andata a chiedere lo stipendio alla titolare e lei dopo la lasciava a casa per un po’ di giorni. Magari la titolare ci dava l’acconto di 100 euro e poi ci saldava quando voleva, mai regolare, con in media venti giorni di ritardo. La Stefania era più ingenua, magari reclamava meno e quindi veniva trattata anche peggio. Io sono stata licenziata nel marzo/aprile del 2009. In una giornata noi facevamo sempre almeno otto ore oltre alle quali ci dovevamo inserire anche i tempi di spostamento tra un cantiere e l’altro. Per le pulizie usavamo anche dei macchinari con i quali si usa l’acido: la monospazzola e l’aspiraliquidi che vanno usata con degli appositi acidi. Ci capitava sempre di avere delle suole delle scarpe danneggiate od i vestiti macchiati dall’acido”.

Le circostanze “ritornano” anche nella deposizione dell’altra collega Priuli Dolores che ebbe a condividere le ardue condizioni lavorative con la ricorrente per un certo periodo di tempo: “Ho lavorato per sei mesi per la ditta resistente nel 2010…E talvolta portavo con me anche la Tiziana. E c’era anche la B.S. e la Tiziana Rossetto e avevamo le stesse mansioni. Non lavoravo sempre insieme alla Bologna. Insieme abbiamo fatto i cantieri a Buttapietra ed al Bingo a Nogara. Al giorno facevamo dieci ore di lavoro ma dipendeva, non tutti i giorni. Io lavoravo più con la Tiziana che con la Bologna. La mattina potevo iniziare anche verso le sei di mattina e facevo fino alle sei di pomeriggio. Non avevamo mai ricevuto guanti, mascherine, scarpe antinfortunistiche dalla ditta. Ho dovuto comprarmele io le scarpe antinfortunistiche. Non avevo mai usato macchinari per l’attività di pulizia. Lavoravamo sette giorni su sette. Non avevamo giorno di riposo. Sarà capitato una volta o due che la titolare ci avvisasse di restare a casa in riposo…”.

Le deposizioni appaiono coerenti, intrinsecamente dettagliate ma non “preconfezionate”, segnalando elementi di genuina prospettazione del rapporto (come la esatta indicazione dei cantieri “condivisi” con la ricorrente; le lievi discrasie emerse con riguardo all’inizio dell’orario di lavoro, che non era identico per tutte le dipendenti e variava, così come variava l’ubicazione dei cantieri, in relazione alle esigenze dell’azienda; l’utilizzo di macchinari; gli acquisti di scarpe antinfortunistiche), benchè provenienti da soggetti che, per evidenti ragioni (viste le penose condizioni di lavoro), hanno avviato vertenze con la società resistente.

Non sono stati offerti elementi di valenza contrastante con quanto emerso in istruttoria e le circostanze riferite dai testi rinvengono pure oggettivo elemento di conforto documentale nell’elenco dei cantieri prodotto dal ricorrente (doc. 6), nella emblematica coincidenza di alcuni dei luoghi rammentati dai testi (“La Stefania l’ho vista lavorare alle Acque Veronesi a Porto di Legnago, alla Valvosacco in un paese lontanino a Forette di Vigasio. Al Bingo di Nogara”).

Ciò posto alla ricorrente spettano, altresì, le differenze retributive maturate in ragione dello svolgimento di un orario di lavoro superiore rispetto a quello contrattualmente previsto e dalla stessa congruamente quantificate, alla luce delle tabelle salariali corrispondenti al livello di inquadramento (calcolate sulla base del VI livello di inquadramento ex CCNL servizi di pulizie – aziende artigiane), in è 18.962,77, secondo conteggi che sono analiticamente esposti in ricorso e che parte resistente si è limitata a contestare genericamente in quanto “carenti della necessaria specificità e chiarezza” (non ricevendo supporto probatorio l’affermazione di periodi non lavorati dalla Bologna).

L’istruttoria ha inoltre confermato la circostanza per cui la lavoratrice per raggiungere i diversi cantieri cui era addetta – salvo occasionali “passaggi” offerti dalle colleghe a bordo del furgone – non ricevesse un rimborso spese per la benzina pur recandosi con la propria vettura sui cantieri: “La B.S. non aveva mai dati i soldi per il carburante però utilizzava spesso la sua macchina. Era una di quelle piccoline che si guidano senza patente. Preciso che lei aveva dei cantieri nei quali lavorava da sola e poi io la raggiungevo e facevamo altri cantieri assieme. Qualche volta, specie al sabato, la B.S. veniva con noi in furgone…Il carburante per la sua macchina che usava negli spostamenti lo metteva lei e se ne lamentava spesso poiché a lei la titolare non dava mai nulla per il carburante”: teste Rossetto), potendosi quantificare le spese sostenute per il carburante, a fronte della durata del rapporto, della distanza da coprire e della frequenza degli spostamenti, nella somma pari a 1.500 euro complessivi (tenuto altresì conto del fatto che le spese riferite dalle colleghe per benzina assommassero a circa 200 euro al mese per gli spostamenti col furgone, costando meno il carburante per la piccola vetturetta “senza patente” adoperata dalla Bologna), cui si debbono aggiungere le somme pari a 500 euro per l’uso dell’auto propria (non beneficiando quasi mai, se non sporadicamente, la B.S. dell’uso del furgone aziendale di cui fruivano le sue colleghe).

Infine le testi escusse hanno tutte dichiarato che la resistente, nonostante l’avesse loro promesso, ha omesso di fornire le scarpe antinfortunistiche e che in ragione di ciò le lavoratrici indossavano proprie scarpe da ginnastica soggette a rapida usura a causa dei prodotti aggressivi utilizzati per le pulizie:

“Né io né la ricorrente avevamo ricevuto le scarpe antinfortunistiche e abbiamo usato le nostre scarpe da ginnastica. Non avevamo né guanti né mascherine. Queste ultime è andata a comprarle la titolare dopo che aveva ricevuto un richiamo da parte dei vigili. Né io né la ricorrente avevamo ricevuto le scarpe antinfortunistiche e abbiamo usato le nostre scarpe da ginnastica. Non avevamo né guanti né mascherine. Queste ultime è andata a comprarle la titolare dopo che aveva ricevuto un richiamo da parte dei vigili…

Quando c’era da pulire “fondi” (nel senso che erano dei luoghi ove erano appena terminati dei lavori di edilizia) o delle pulizie più accurate che si facevano una volta all’anno usavamo macchinari: una macchina per buttare l’acido sul pavimento e l’altra che doveva risciacquare per pulire l’acido. Ci è capitato più volte di avere la suola delle scarpe corrosa o i pantaloni bucati dall’acido impiegato nei lavori di pulizia. Noi lo avevamo fatto presente alla titolare ma lei si metteva a ridere. Addirittura tante volte i guanti ce li compravamo noi. Un’altra volta abbiamo dovuto pulire dei vetri alti senza nemmeno un trabattello ed avevamo dovuto adoperare la scala lunga, l’unica che aveva affittato la titolare. La B.S. aveva avuto anche male al ginocchio dopo che aveva passato alcune ore (5 o 6 ore) a pulire i vetri con la sola scala e senza la cinghia”: teste Rossetto.

“Le scarpe antinfortunistiche qualche volta ce le siamo comprate noi anche perché se non ci fondeva la suola ad utilizzare gli acidi per la pulizia… Per le pulizie usavamo anche dei macchinari con i quali si usa l’acido: la monospazzola e l’aspiraliquidi che vanno usata con degli appositi acidi. Ci capitava sempre di avere delle suole delle scarpe danneggiate od i vestiti macchiati dall’acido”: teste Bellotto

“Non avevamo mai ricevuto guanti, mascherine, scarpe antinfortunistiche dalla ditta. Ho dovuto comprarmele io le scarpe antinfortunistiche”: teste Priuli.

In ragione di ciò deve essere riconosciuta alla lavoratrice la somma di € 500 a titolo di indennizzo per l’utilizzo e l’usura delle proprie scarpe durante il lavoro.

Le spese di lite, liquidate come da dispositivo in virtù dei parametri tabellari in vigore e dell’opera professionale prestata, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattesa, così
provvede:

– accerta e dichiara l’illegittimità del licenziamento impugnato e per l’effetto condanna “L. AZZURRO di G.C.” in persona del legale rappresentante pro tempore al risarcimento del danno in favore di B.S. pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria;

– condanna “L. AZZURRO di G.C.” in persona del legale rappresentante pro tempore a pagare a B.S., a titolo di differenze retributive calcolate sulla base del VI livello di inquadramento ex CCNL servizi di pulizie – aziende artigiane, la somma di Euro 18.962,77, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria ed oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale;

– condanna “L. AZZURRO di G.C.” in persona del legale rappresentante pro tempore a pagare a B.S., euro 1.500,00 per rimborso delle spese di benzina, euro 500,00 per l’utilizzo dell’autovettura propria, euro 500,00 per l’utilizzo delle scarpe proprie durante lo svolgimento dell’attività lavorativa;

– condanna infine la ditta convenuta come sopra indicata alla rifusione delle spese di lite sostenute dalla ricorrente che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre rimborso spese 15 % , IVA e CPA di legge, da distrarsi a favore dell’Avv. Alessio Veggiari dichiaratosi antistatario;

– indica termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione.

Verona 29.5.2015

IL GIUDICE
dr. Marco Cucchetto

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