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Ddl Zan: scontro tra Corte Costituzionale e quotidiano «La Verità»

Al centro della contesa un passo della Relazione Annuale 2020 presentata dal presidente Giancarlo Coraggio.

Un conflitto fatto di citazioni: questo è il modo più semplice per definire lo scambio di battute ancora in corso tra la Corte Costituzionale e il quotidiano «La Verità».

L’oggetto della contesa è un passo della Relazione Annuale 2020 del presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio nel quale, secondo il quotidiano, la Consulta sarebbe «pronta a sostituirsi all’assemblea degli eletti per introdurre una nuova fattispecie di reato, quella di omofobia che si vorrebbe inserire con la legge Zan nel Codice Penale» (articolo La Consulta tifa legge bavaglio).

L’articolo viene smentito da un comunicato ufficiale, nel quale si ricorda che  «né nella Relazione letta dal presidente davanti alle alte cariche dello Stato né tanto meno nella successiva conferenza stampa alla presenza di numerosi giornalisti, il presidente Coraggio ha mai affermato o lasciato intendere quanto gli attribuisce arbitrariamente “La Verità”, ignorando peraltro che, per costante giurisprudenza costituzionale, la Corte non può creare nuove figure di reato o ampliare i confini di quelli esistenti.»

Ricevuto il colpo, il quotidiano condotto da Maurizio Belpietro rincara la dose con l’articolo La consulta affoga nel ridicolo, riportando tale virgolettato a sostegno delle proprie convinzioni: «È compito proprio del legislatore farsene carico [dei nuovi diritti, ndr], ma in mancanza di un suo intervento, […] la Corte non può, a sua volta, rimanere inerte, specie quando sono in gioco i diritti di minoranze […]».

Lungi da noi alimentare i dissapori, riportiamo di seguito il passo “incriminato” completo di suo contesto:

«È un dato che può ben definirsi storico l’aumento, non certo limitato al nostro Paese, degli interventi delle Corti supreme nazionali e sovranazionali. Esse svolgono un ruolo sempre più incisivo sia sugli assetti ordinamentali (si pensi alla Corte di Giustizia europea) sia sul riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali (il riferimento naturale è, ancora una volta, ad una Corte a noi vicina, quella europea dei diritti dell’uomo); atteggiamenti analoghi si riscontrano in Paesi a noi affini per sistema e tradizione, quali Francia e Germania, senza contare l’azione, di fatto normativa, da tempo svolta dalla Corte suprema degli Stati Uniti. 

Come le altre Corti, anche la nostra, si è trovata ad operare in un contesto caratterizzato insieme da una maggiore complessità e da una maggiore urgenza per il moltiplicarsi delle pretese che chiedono di essere ricondotte a diritti fondamentali e che sono avvertite – a torto o a ragione – come irrinunciabili e non procrastinabili. 

Il loro riconoscimento comporta un compito delicato, che richiede, anzitutto, una selezione attenta delle situazioni giuridiche meritevoli di tutela, per evitare che ogni pretesa si trasformi automaticamente in diritto, e poi che il “nuovo diritto” si inserisca armonicamente nel contesto preesistente: i diritti, come i valori che li esprimono, non vivono isolatamente, ma si limitano e si condizionano a vicenda, poiché il loro esercizio comporta altrettanti doveri e oneri a carico dei singoli o della collettività. 

È compito proprio del legislatore farsene carico, ma in mancanza di un suo intervento – mancanza a volte giustificata dal tumultuoso evolversi della società – la Corte non può, a sua volta, rimanere inerte, specie quando sono in gioco i diritti di minoranze, la cui tutela è il naturale campo di azione dei giudici, quali garanti di una democrazia veramente inclusiva.»

(G. Coraggio, Relazione annuale 2020, pp. 15-16)

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