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Commento a sentenza: Corte di Cassazione, n. 14505/2018

Commento a sentenza, in tema di trasferimento del condannato, gentilmente segnalata dall’Avv. Patrick Francesco Wild del foro di Rimini

Nella sentenza n. 14505/2018 della Cassazione l’attore ricorre in giudizio per rovesciare i precedenti giudizi che lo vedevano soccombente.
Dopo essere stato condannato a 12 anni di reclusione, in Armenia, per il reato di traffico di droga, nella specie oltre tre chili di cocaina, lo Stato italiano riconosceva tale sentenza a fini della sua esecuzione.
Il condannato contestava che la Corte d’Appello, dopo aver qualificato i fatti per i quali era avvenuta la condanna, avrebbe adottato una decisione incompatibile per natura e durata con i principi dell’ordinamento italiano: non solo vi era la difficoltà applicativa per il medesimo fatto ma anche l’elisione della possibilità di accedere al rito abbreviato.
Prima di analizzare la questione di specie, è necessario evidenziare come la materia sul trasferimento dei condannati sia regolata dalla Convenzione di Strasburgo del 1983, la quale pone condizioni stringenti ai fini della sua esecuzione, ex art. 3:

  • il condannato deve essere cittadino dello Stato di esecuzione;
  • la sentenza deve essere definitiva;
  • la durata di condanna che il condannato non ha ancora subito deve essere di almeno sei mesi alla data di recezione della domanda di trasferimento, o indeterminata;
  • il condannato deve esprimere il suo consenso al trasferimento;
  • ciò che ha portato alla condanna deve costituire reato nello Stato di esecuzione;
  • vi deve essere un accordo tra gli Stati per il trasferimento.

Chiarito ciò, è necessario osservare quale regime di recezione sia stato dichiarato dall’Italia, in quanto la Convenzione di Strasburgo lasciava la scelta tra la conversione, che implica un’autonoma sostituzione della sanzione inflitta con altra prevista dallo Stato di esecuzione per lo stesso reato, e la continuazione, in base alla quale lo Stato di esecuzione è vincolato dalla natura giuridica e dalla durata della sanzione risultante dalla sentenza straniera.
Preso atto che la legge di esecuzione di tale Convenzione optò per il criterio della continuazione, prevedendo quello di conversione solo come extrema ratio, nella remota ipotesi in cui l’entità della pena non sia stabilita nella sentenza straniera, il giudice del caso di specie non può che constatare la assenza di fondamento giuridico nella richiesta attorea, vertente sull’eccesso di pena.
Per dovere di completezza non può non citarsi un caso di scuola in cui, invece, è stato seguito il diverso criterio della conversione: la sentenza della Cassazione che ha annullato l’ordinanza n. 31/5/2007 della Corte d’Appello di Milano. Sebbene la casistica giurisprudenziale in materia di continuazione fosse foltissima, i giudici ritennero doveroso non seguire pedissequamente gli autorevoli precedenti. Il pomo della discordia verteva essenzialmente sul non riconoscimento dell’indulto nell’ordinamento britannico, conosciuto invece in quello italiano e applicabile a un soggetto la cui pena doveva essere eseguita in Italia. Dopo una lunga indagine comparatista emerse un coacervo di situazioni eterogenee nei vari Stati, non esistendo una perfetta sovrapponibilità degli istituti dell’amnistia e della grazia, riconoscendo quindi l’applicazione dell’indulto attraverso una conversione.
Tutto ciò evidenzia come la recezione della normativa europea non sia necessariamente acritica e sincronica ma segua una ratio evolutiva e dinamica, con le dovute eccezioni.
Ciò che ha penalizzato l’attore del caso di specie è, sic et sempliciter, la cagionevolezza del suo iter probatorio.

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Michel Simion

Dottore in Giurisprudenza, Università degli Studi di Verona. Tesi in diritto costituzionale giapponese, appassionato di letteratura asiatica.

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