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Cassazione: la videosorveglianza privata nel pubblico non è violenza privata

La videosorveglianza privata che sconfina nel pubblico è sempre lecita, sempre che sia debitamente segnalata e rivolta alla protezione dei beni e dell’incolumità personale e della famiglia. Non importa che i proprietari usino le immagini per sorvegliare e denunciare gli abitanti della zona per comportamenti illeciti (si va dal cattivo parcheggio al non aver raccolto le feci del cane).

È quanto specificato dalla Cassazione con sentenza n. 20527/2019, con la quale si è accolto il ricorso presentato dagli imputati condannati per violenza privata dal Tribunale di primo grado e dalla Corte di appello.

La violenza privata, ricorda la Cassazione, si configura quando vi è l’utilizzo di qualunque mezzo utile «a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere, anche in una violenza “impropria” che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione»; non è, quindi, necessaria una violenza verbale o esplicita, ma basta qualsiasi atteggiamento «idoneo a incutere timore o a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o omettere qualcosa».

Nel caso in esame, però, è vero che il monitoraggio costante può condizionare vita e movimenti dei cittadini, ma deve comunque essere considerato come compromesso tra la libertà individuale e l’esigenza di sicurezza. Il cittadino, infatti, rimane libero di selezionare il comportamento da tenere o la via da percorrere. In tal senso i condizionamenti sono tanto minimi da «non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione».

Esclusa, quindi, la violenza privata. Semmai, per quanto riguarda le ripetute denunce riguardanti i fatti ripresi, si potrebbero configurare i reati di ingiuria, minaccia o molestia.

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